Rassegna stampa

Carlo Quattrucci | Per un giovane pittore (...)

di Carlo Quattrucci
Mondo Nuovo | 1960


È nato nel 1932 a Roma, dove vive e lavora. La prima mostra alla quale ha partecipato è stata la Ottava Quadriennale d’Arte Contemporanea allestita a Roma nel 1959
A mio parere, per un giovane pittore che opera in una situazione storica e culturale contraddittoria quale la presente, è impossibile – a meno di non essere un mediocre o di scendere a compromessi – non essere polemico. Io credo che questo sia il momento dei pittori di un certo tipo. Di coloro, cioè, che non si limitano a una ricerca intimistica e introspettiva, fatta di sensazioni (ricerca che quasi sempre annega nello stagno del formalismo oggi imperante), ma che hanno il coraggio di scavare nel vivo della realtà, senza il rumore delle enormi difficoltà che questa ricerca comporta.
Credo possibile che il pittore, oggi, attraverso la mediazione della più lucida razionalità, riesca a stabilire un rapporto moderno che gli consenta di dominare la realtà. Io sono nato e lavoro in una grande città. La gente che conosco e dipingo è nata e vive in un mondo ossessionato dal bluff della pubblicità all’americana e dal gretto conformismo. Dipingo e continuerò a dipingere la città con la sua folla, cercando di far assumente alle cose e ai fatti un valore emblematico che li riscatti dall’aneddoto o dall’episodio.
Ed è per questo che guardo con estremo interesse ai pittori che, come Sughi o Vespignani, affrontano la realtà cittadina. Ma, secondo me, l’uomo di Sughi – l’uomo cinico e crudele che non lavora ma “intrallazza”, che non produce ma media, lo squallido prodotto di questa società che passa sicuro tra la folla – non è poi così facilmente individuabile. Secondo me, quest’uomo non è affatto il grosso capitalista di Grosz, oppure il cinico personaggio alienato dipinto da Sughi. Quest’ultimo non è più un cliché ma, purtroppo, qualcosa di meno facilmente isolabile. Il vero nemico non è il grande “capitano d’industria” a sé stante, ma un certo tipo di borghesia agiata che si mescola alla folla e diventa parte integrante di essa. In una grande città, oggi, quasi tutti hanno la cravatta e le scarpe lucide, e le grosse macchine sono come i gioielli falsi: sono polvere negli occhi.
Oggi, il neocapitalista o il borghese che dicevo è molto più probabile che viaggi in “600”. Non hanno più una divisa, ed è per questo che sono più pericolosi. Nel 1960 il “padrone delle ferriere” non ha più il cilindro e frusta, ma dispone di un esperto in human relations il quale lo informa (tra l’altro) che l’operaio, non bevendo birra, rende di più.
In sostanza, credo che la cosa sia molto meno semplice di quanto si pensi, e che non sia possibile colpire questa gente se non ci si rende conto, con occhio lucido e senza frapporre tra noi e la realtà lo specchio deformante del romanticismo, che le condizioni storiche sono in continua evoluzione. Come si risolve questo sul piano della pittura? Secondo me, è necessario marciare di pari passo col tempo ed evitare accuratamente di restare legati a vecchi schemi che ormai non servono più, e cercare di capire che la realtà non è semplice e riducibile a formule, ma al contrario, è complessa e piena di evidenti contraddizioni. Credo che col bagaglio di oltre mezzo secolo di estetiche, senza porsi problemi formali, di unità assoluta di linguaggio, il pittore possa oggi (a seconda del suo temperamento) riuscire a esprimere, trasponendole sul piano plastico, queste contraddizioni.
E penso che solo un’analisi severa e cosciente di tutti gli aspetti che contraddistinguono e caratterizzano la realtà moderna possa portare a un risultato criticamente accettabile. Anche se la mia pittura – per la personale convinzione che l’oggettività e l’analisi sono i veri binari del realismo – ha sconfinato spesso nel “documento”, non credo assolutamente che il “documentarismo” sia un mezzo idoneo a esprimere fatti e situazioni che non vanno “documentati”, ma, al contrario, capiti e opportunamente riproposti attraverso il setaccio della fantasia e della ragione.
Un pittore che ha veramente ricostituito un linguaggio moderno, capace di esprimere la realtà del suo tempo è Ben Shan. Le sue allegorie cariche di umanità, e nello stesso tempo terribili, sono frutto della grande fantasia di un pittore che, cosciente del dramma della propria epoca, non si fa trascinare dal panico irrazionale, ma ci restituisce, capovolgendole, le scoperte dei surrealisti, il mondo oggettivo.
Penso che i Ben Shan, i Siqueiros, i Picasso, cioè i pittori che, avendo coscientemente scontato la ventata delle avanguardie, hanno avuto la capacità di appropriarsi di certe soluzioni espressive proprie del surrealismo e del cubismo, trasformandole in un potente, moderno e costruttivo linguaggio di accusa, sono coloro che meglio possono indicare la strada del realismo.