Testi critici
Prefazione al libro "Black Power"
di Dario Micacchi
Prefazione al catalogo della mostra "Quattrucci"
10-20 maggio 1967
Galleria "La Rosta due" | Bari
Non è mia intenzione introdurre meccanicamente rapporti di causa ed effetto nella considerazione dell’opera di un artista al fine della valutazione del suo tendenziale dare forma e della qualità plastica della pittura sua. Un fatto è certo pero: a Roma, a Milano, un po’ dappertutto vedo la ricerca dei giovani avvilirsi e soffocare nella trita frequentazione delle gallerie e dei gruppi di potere. E’ un fenomeno tanto diffuso quanto drammatico (non importa culturalmente che troppi giovani qui si trovino a loro agio e ci cavino un tornaconto) che minaccia di affossare, in un clima di manierismo neofigurativo, tapino e cortigiano secondo i modi più vecchi del costume italiano, le molte e fondate speranze sulla rinascita d’una pittura italiana della realtà.
E’ un fatto che il distacco, anche per pochi mesi di Carlo Quattrucci dall’ambiente romano sia stato salutare per lui, come testimoniano questi suoi quadri di soggetto messicano che non hanno nulla di esotico e che non rappresentano una facile rottura col suo precedente operare. Innanzitutto la natura messicana, con i suoi interminati spazi e le sue forme fantastiche, ha liquidato quel tanto di vedutistico romano che imbrigliava la sua volontà fantastica di dipingere immagini emblematiche della nostra vita ed ha stimolato un sentimento della terra più profondo, meno aneddotico, davvero panico.
Credo che la natura messicana abbia ridimensionato la fatica neofigurativa di tanti altri giovani i quali, arrancando dietro Sutherland ed Ernst, perseguiscono il fine della stravaganza e dello stupore: se le forme naturali possono essere più fantastiche di quelle inventate, passato l’effetto visivo di choc, un pittore che sia libero può tornare a riflettere lucidamente sull’angustia di una ricerca pure celata sotto un figurare immaginifico. Dal confronto con la natura messicana Carlo Quattrucci è uscito come un pittore di grande probità intellettuale e con un più alto senso della misura umana delle cose.
C’è poi il fatto di aver lavorato in una équipe diretta da Mario Orozco Rivera, a fianco di David Alfaro Siqueiros il quale andava completando, nel Castello di Chapultepec, il murale “Tiranni e tirannicidi” e dava principio, nell’atelier di Cuernavaca, allo sterminato murale “Il cammino dell’umanità”, dove decenni di esperienze formali e tecniche di avanguardia sono messe a profitto per un nuovo racconto realista che si giova del contributo della scultura affidata a Luis Arenal. La tecnica e lo stile di Carlo Quattrucci si sono fatti subito più sobri e funzionali, i valori costruttivi e “tattili” del quadro sono passati in primo piano, la materia della pittura comincia a essere sentita nel suo potere di amplificazione della forma.
In sostanza la cultura italiana, ed europea, del giovane italiano ha subito più una verifica che una violenza. L’interesse per lo spirito analitico esistenziale di un Vespignani non è stato sostituito alla brava dall’interesse per lo stile sintetico narrativo di un Siqueiros. Carlo Quattrucci conferma, proprio con i quadri “messicani”, di avere pensieri suoi sulla vita e sulla pittura. Quello stile visionario e “flamboyant” che perseguiva nei motivi romani qui è riproposto con più naturalezza lirica. Il motivo del grande albero – e leggenda che l’esercito di Cortez vi trovasse nascondiglio – che invade lo spazio e si fa emblema, fra grandeggiante e spettrale, è, forse, quello che meglio rivela questa ritrovata naturalezza. Ma la conquista di certi valori del colore, verde, azzurro ocra e grigio, e evidente in tutti i quadri, e cosi il valore poliedrico di significati di immagini emblematiche liberate dall’enfasi immaginifica e dalla gestualità della tecnica. Il che significa, che lo si voglia o no, che l’approdo all’alba del mondo, alla natura viridans di Max Ernst, così raro da noi o così falsamente sbandierato da “viaggiatori” fasulli, può avvenire per altre vie che quelle propagandate dall’ente internazionale per il turismo surrealista. E significa anche che natura e realtà sono fonti inesauribili di conoscenza, con buona pace di quei “realisti” i quali tranquillamente identificano i confini del mondo, in lungo in largo e nel profondo, col punto da essi toccato, una volta per tutte: cosi, daccapo, la terra si fa piatta (con tante piccole “aiole” che ci fanno feroci) e di là dalle Colonne d’Ercole ci attenderebbero soltanto risucchianti gorghi e tanti baubau.