Febbraio 1, 1980In Roma, testi critici, 1980
Testi critici

Fortuna Bellonzi | Da “Carte segrete”

di Fortunato Bellonzi
Dalla pubblicazione "Carlo Quattrucci" edita da "Carte segrete"
a cura di Massimo Riposati
Febbraio 1980


Alla iconografia di Roma, che ha un così gran numero, e variatissimo, di vedute antiche e moderne, straniere e italiane (qui, in Roma, nacque il paesaggio come motivo dominante, poi unico protagonista dell’immagine; dalle lunette Doria di Annibale Carracci a Poussin, a Corot ed oltre) Carlo Quattrucci aggiunge la sua Roma di impronta nordica, di tagli severi, di luci fredde, abbaglianti, di scritture nere che sono l’impalcatura ferma della superficie e la partiscono in isole giustapposte, spesso con effetto finale di vetrata.
Da dove gli provenga questa elezione di una Roma tanto inconsueta, che all’oro caldo e alla vinaccia della recente tradizione figurale (ma anche agli esempi più singolari e diversi: vedi i tetti romani di Fausto Pirandello, con grame luci, da giornata piovosa, o dorature pallide e grigi polverosi e verdi timidi e spenti) contrappone una struttura e un cromatismo che fanno pensare, talvolta ad Edvard Munch, non saprei dire; e credo, infine, che non siano additabili plausibili di cultura, neppure percorrendo la strada avventurosa che il pittore ha già consumata, e i molti e incontri avuti con paesi, uomini ed eventi lontani.
Certo le molteplici esperienze da lui compiute, tra cui quella in Messico, accanto a Siqueiros, non saranno passate invano; ma non se ne scopre traccia: che l’energia del segno, quel modo, mettiamo, di scavare l’argine del Tevere o di gettargli sopra, d’impeto, le arcate dei ponti, non si impara se non con l’ascoltazione di sé, nel profondo, se non col sorvegliato abbandono di un attimo al motivo, cui subentrerà la lenta, concentrata meditazione su quello, e le semplificazioni formali via via suggerite dalla memoria che rivive il veduto, per darci infine l’immagine, autonoma ed esatta, che nulla avendo perduto dell’iniziale accensione fantastica, si oggettiva da ultimo, con pacata violenza, nei modi strettamente personali, del pittore, che subito diventeranno il nostro stesso modo di scoprire una Roma mai vista prima, la quale è tuttavia sotto i nostri occhi ogni giorno.
Questa è, appunto, l’operazione della poesia, che per costituirsi non ha bisogno dell’inedito vistoso, della faticosa ricerca di una originalità formale esteriore e meravigliante, ma sempre rinnova i contenuti apparentemente più semplici e vieti con l’autenticità (perciò stesso con la novità assoluta) del sentimento che insieme li assume e li provoca; e può perfino fare ogni sorta di citazioni poco meno che letterali, e contaminare gli stimoli più disparati, e innestare o parafrasare il già detto, come accade nei grandissimi che sogliamo chiamare “classici”, nei quali riconosci ad ogni piè sospinto, utilizzati a guisa di frammenti della realtà totale, ovvero della stessa storia dell’uomo, pensieri e immagini, che per la loro medesima collocazione e giuntura espressiva diventano sangue nuovo della poesia, connotandone l’inventiva e l’originalità creatrice.
Sicuramente Quattrucci non ha avuto alcun bisogno di certe mie paginette di molti anni fa, rievocative del rogo di Giordano Bruno nel Campo de’ Fiori, la mattina del 17 febbraio dell’anno santo 1600; e seppure mi lusingo che la loro lettura l’abbia invogliato a guardare, forse con attenzione nuova, la piazza e la statua grave del Ferrari (uno dei veri monumenti belli del tempo) so bene come egli non mi vada in nulla debitore delle inquadrature drammatiche del Campo, col simulacro nero del grande Nolano, e le lame bianche dei teli che sciabolano lo spazio con eccezionale violenza annidandovisi, al di sotto, l’ombra fonda del mercato.
Il Campo de’ Fiori è – con il Lungotevere tra ponte Sisto e ponte Garibaldi, e con le vedute di villa Lante dalla terrazza dello studio del pittore – uno dei temi romani prediletti da Quattrucci, che vi ritorna con estrema ricchezza di soluzioni, così dei blocchi rossastri delle case come delle avventate, bianchissime ali che sovrastano i banchi dei venditore (righe sottili e interrotte di colore tagliano, in zone orizzontali, la struttura del dipinto, quasi sottilissime bave di una luce che non sapresti dire, però, se promani dal giorno o da sorgenti artificiali che nello scatto di un fotogramma abbiano rivelato all’improvviso la piazza dal buio totale della notte).
Nel mondo visivo del pittore tutto è unitamente organico. Cosi l’albero che spesso si vede invadere da un lato l’altezza del paesaggio, quasi colonna rostrata della nostra era tecnologica: gli spuntoni duri dei suoi rami tagliati appartengono alla natura nell’attimo stesso in cui li senti come prodotti estranei, se non ostili, dell’artificio.
Questo linguaggio, che trasforma in parole il testo all’esperienza visibile di per sè muto, invade con una costante operazione di germinazioni, di tarsie, di ritagli, gli imprestiti fitomorfici e zoomorfici anche il mondo della macchina e del tecnicismo, sul quale viene pertanto esercitata una ricognizione assorbente e modificatrice.
Si assiste in tal modo all’incessante scambio di riti formali tra ciò che chiamiamo natura, più propriamente suscitatrice del momento teoretico dello spirito, e ciò che invece è il prodotto della febbrilità utilitaria nel campo più particolare della pratica e dell’attivismo.
Da ciò il fascino della grafica di Quattrucci, che negli stessi dipinti (ma anche nelle sculture) è palese punto di partenza e condizionamento dell’opera d’arte: vedi quell’assimilarsi delle persone alle maschere (perfino nei ritratti, in cui alcuni di icastica evidenza e penetrante lettura psicologica).
Esemplare, in proposito, la vasta tela dei Travestiti sul lungotevere, con una folla congesta che recita un drammatico trionfo, tra carnevalesco e funerario, da cui esula ogni contenuto moralistico e in cui si rapprende seriamente l’idea dell’umanità stessa nella sua effimera e disperata apparizione. Cogli, dovunque compaia la figura umana, un sentore di manichini, sia pure in abiti di festa o di ballo; e un interrogativo inquietante, come penso di dover credere, sulla assurdità che sembra presiedere al nostro cammino e trascinarlo senza giustificazione fino al termine buio della morte.
Dicevo della grafica di Quattrucci come della base del suo intero lavoro di artista; né sarebbe giusto scrivere che il segno, la linea, sopravvive al sentimento del colore, d’altronde così forte e personale; o al sentimento del volume in cui sono prove eccellenti nella scultura, affrontata da poco e nondimeno matura al punto di conferire a Quattrucci già un posto tutt’altro che marginale nella storia delle recenti ricerche plastiche figurative in Italia. La sopravvivenza, infatti, potrebbe essere intesa come qualcosa di non rigorosamente vitale, che continui la propria funzione nel costituire l’immagine, o coloristica o plastica, quasi facendosi strada velleitariamente.
Al contrario, il grafismo e qui più che l’ossatura dell’opera la sua spinta interiore a manifestarsi, a crescere su se medesima e a concludersi; e, vorrei dire, l’equivalente del contenuto nei confronti della forma: valore formante che si fa valore formale.
Si osservino le sculture. Come è naturale in un artista, che esprime se stesso ogni volta, qualunque sia lo strumento linguistico di cui si serve, noi ritroveremo in esse, insieme con quella organicità articolante e unitaria cui accennavamo di sopra (onde la forma procede per sviluppi e innesti di piani, e per alterna vicenda di volumi in positivo e di altri in negativo, partecipe del contegni, mediato attraverso la pungente osservazione naturalistica) ritroveremo – dicevo – il valore primario della linea: non soltanto nelle creste aguzze e ondulate dei profili o nei dischi immessi o nel guizzo improvviso, e conseguente, che spezza il ritmo per subito recuperarlo, reiterarlo e nuovamente interromperlo e concluderlo (ciò che dà all’immagine il movimento autonomo è necessario, quale è sollecitato dalla fantasia e quale potremmo ricollegare parzialmente a Boccioni) ma nell’intero svolgimento dell’idea e della forma che docilmente l’asseconda, spesso lungo una spirale o piuttosto un complesso di spirali e di espansioni, di cui il maggior raggiungimento, per ora, mi sembra indicare nella Ballerina andalusa, che mi auguro possa essere presto realizzata nelle proporzioni grandi, già contenute nelle attuali misure del bronzetto.