Settembre 1, 2016In testi critici, dai cataloghi, 2016
Testi critici

Percorsi d'arte in Italia: atto III

di Giorgio Di Genova
Dal volume "Percorsi d'arte in Italia 2016"
Settembre 2016 - Rubbettino Editore


Con il presente volume prosegue l’esplorazione del vasto continente della produzione artistica in Italia in atto, ma estesa a quegli artisti scomparsi, che, a mio avviso, non vanno dimenticati, per vari motivi, non ultimo quello di aver in più di un caso tracciato sentieri su cui procedono i discorsi attuali. Esplorazione che, sono convinto, ribadisce l’importanza delle proposizioni artistiche in atto nell’ambito di quella mondiale, nonostante e a dispetto delle mode che il mercato internazionale diffonde, non sempre basandosi sui soli valori estetici.
Nella mia ultra cinquantennale attività di studioso, purtroppo ho constatato che parecchi artisti usurpano, in virtù di un mercato più propenso all’affarismo che alla cultura, con la complicità di certi critici, una notorietà che non meriterebbero. E viceversa, molti più artisti non godono della notorietà che meriterebbero, come credo di aver mostrato nei 9 tomi della mia “Storia dell’arte italiana del ‘900” e come in certa misura attesta anche la recente pubblicazione.
(…) Come già nell’immediato secondo dopoguerra, all’inizio degli anni Sessanta a Roma il riferimento per i giovani comunisti era ancora Renato Guttuso e otto di essi nel gennaio del ’61 si riunirono in una mostra come Gruppo Libertà-Realtà, definendosi “giovani pittori romani”, che ribadivano la comune “posizione critica di fronte alla cultura e all’arte della società” in cui operavano, precisando la loro opposizione a “l’arte per l’arte” (così si definiva l’astrattismo geometrico) e all’arte informale. Tra essi, che erano Marcello Confetti, Paolo Ganna, Piero Guccione, Gino Guida, Pino Reggiani, Aldo Turchiaro, Parquale Verrusio, c’era Carlo Quattrucci, il quale subito cominciò a liberarsi dalle influenze guttusiane in dipinti urbani, incentrati “su temi di notturni conversari tra ragazzi lambrettisti raccolti sotto i grandi pannelli della pubblicità” (Del Guercio), nonché su vedute della Roma fluviale, che, abitando l’artista in un palazzo di via degli Artigiani, a ridosso del Tevere (lo stesso in cui abitava Gino Guida), dal suo terrazzino poteva vedere il recente Ponte Testaccio, il Gazometro, temi ricorrenti in tele di pastoso espressionismo, in cui qualche volta s’intravvedeva qualche debito ai paesaggi con ponti sul Tevere di Attardi. Tuttavia presto in Quattrucci subentrò una esigenza di eleganza che si coniugava con una tavolozza tendente a gamme di azzurro. Già nelle vedute, per lo più dipinte dal terrazzino, alcuni elementi cominciavano a voler simboleggiare il senso di prigione che l’artista avvertiva in una Roma che cambiava con l’urbanizzazione sfrenata e irrazionale. La sofferenza per il degrado della città influì via via in modo esagerato sulla psiche di Quattrucci, come appare in taluni autoritratti, in cui si presentava nel buio del suo studio vestito da hidalgo, oppure in cilindro e incappottato con un revolver in mano. La stilizzazione delle immagini prendeva sempre più evidenza, fino all’abolizione delle sembianze, com’è in un ritratto della figlia Tiziana e ad una semplificazione sostanziale, come attestano le opere della fine degli anni Settanta (Alice allo zoo, 1979), quando Carlo andava in giro indossando una divisa da guerrigliero. La sofferenza fu talmente insopportabile da spingerlo nel 1980, a 42 anni, a voler abbandonare la vita.