Rassegna stampa
Duilio Morosini | I quartieri-dormitorio del pittore Quattrucci
Una suggestiva serie di “referti” sulla città moderna e i suoi abitanti
di Duilio Morosini
L'Unità | 24 giugno 1964
Quadri o disegni del giovane Carlo Quattrucci si sono visti a Roma in mostre collettive ed edizioni grafiche che lo hanno affiancato ai più fervidi pittori figuratici delle ultime leve. Vi risultava come un artista alla ricerca di una sua strada, con tutte le incertezze, i risultati parziali e le cadute che ciò comporta. Tale appariva anche nella piccola “personale” del ’62 alla “Nuova Pesa”, dove un’immagine del pittore alle prese colla “matassa” della realtà da cui ricavare le cose significanti (un ritratto di se stesso, miope dentro uno studio notturno, sotto una lampada) riscattava, con la sua nota di patetica autobiografia, altri quadri, di impianto simbolico, molto meno sentiti.
Oggi, Quattrucci espone nella stessa galleria, ma con un gruppo nutrito di opere (una ventina), centrate su una tematica comune – il referto, come scrive il suo prefatore Trombadori, sui quartieri-dormitorio della città sviluppatisi in spezzo ai bisogni dell’uomo – e caratterizzate da una lingua e da una tecnica omogenee. Da punto di vista del dominio dei mezzi, della precisione formale, c’è un avanzamento ed anche piuttosto vistoso. Quanto ai risultati poetici (anch’essi più intensi, in alcuni quadri) non credo sia possibile parlare senza tracciare una linea di discriminazione tra un gruppo di opere e un altro.
Non è il caso di insistere sul fascino che le immagini angosciose dell’uomo dentro la gabbia di vetro della sua città create da Bacon esercita sul pittore e marca un po’ tutta la mostra (anche perché ne parla già a lungo il prefatore alla mostra stessa). Basterà dire (semplificando, tanto per intenderci subito) che Quattrucci mira ad emanciparsi da Bacon, calando quella visione e quelle forme dentro una intensa luce, tutta meridionale, tutta mediterranea.
È su quella tale linea di demarcazione che divide la mostra che è, se mai, utile scambiare qualche idea con l’artista stesso e col pubblico. Essa passa tuttora, anche se ad un altro livello qualitativo di pittura, tra autobiografia e mito, tra espressione diretta ed espressione simbolica. Nel secondo gruppo di quadri, fa difetto la capacità di saldare plasticamente e poeticamente i dati visivi e i dati mentali della rappresentazione. È questo il caso, per esempio, di un dipinto come “L’uomo e il cemento”. Qui la drammaticità è tutta dichiarata nel soggetto (di qua, nel buio, l’uomo crocefisso e la fantomatica macchina da scrivere; di là, nella luce abbacinante, la città-dormitorio) e non si incarna in un vero contenuto (restando inteso che, dicendo questo, non metto certo in causa il processo figurativo, ma l’uso che l’artista ne fa).
Nel primo gruppo di quadri, invece – i quadri più semplici che mirano dritto all’interpretazione sintetica del visibile, – riaffiorano, con lucidità ed accento più persuasivo, quei motivi autobiografici di sui parlavo all’inizio e dentro i quali Quattrucci si muove più a suo agio.
Alludo, per esempio, a composizione come “Terrazzino in vetro e cemento” (con quei bianchi dei vetri del balcone gelidamente sospeso nel vuoto, con quello accostamento della pianta rigogliosa al groviglio di spine) o come “La grande piscina”, con quel suo contrappunto tra specchio d’acqua, piante e “casellario” di vetro della facciata del grattacielo. È in questa sorta di integrazione tra geometrico spirito costruttivistico e lirica tensione delle Forme nella luce diurna (una integrazione che parte dall’osservazione diretta delle cose) che Quattrucci oggi riesce ad esprimersi meglio.