Febbraio 1, 1978In Spagna, testi critici, dai cataloghi, 1978
Testi critici

Fortunato Bellonzi | Prefazione del catalogo "España!"

di Fortunato Bellonzi
Dal catalogo della mostra "España!"
Edizioni "La Gradiva" | Roma


Rispettivamente nel ’62, l’anno della sua prima personale a Roma (ma si era fatto notare qualche tempo innanzi: nel ’59, ad esempio, nel numero folto delle opere dei giovani ammessi alla Ottava Quadriennale, spiccava un suo paesaggio urbano, già caratterizzato da quel misto di violenza e di tenerezza, che è il modo schietto del nostro pittore di partecipare alla realtà) e nel ’64, in occasione della sua seconda, e più matura e più ricca “personale” romana, Antonio Del Guercio e Antonello Trombadori, osservando come l’impegno ideale e figurale di Carlo Quattrucci venisse guadagnando la propria autonomia espressiva entro l’esigenza di nuove immagini del reale, da più parti avvertita ma, naturalmente non sempre con altrettanta chiarezza di propositi e di risultati, convenivano entrambi nel rilevare il sentimento di sincera (e coraggiosa) solidarietà umana che guida il comportamento e il lavoro di questo artista verso il traguardo di un lirismo senza sbavature sentimentali. Semmai – scriveva Del Guercio – l’accento batte pacato e intenso, come in un tenue fuoco notturno, su una ricerca di espressione sobria della umana dignità”. E Trombadori: “non esito ad affermare che tanto più Quattrucci porterà avanti la sua ricerca quanto più, anche nei momenti di maggiore tentazione alla magniloquenza, saprà ascoltare il richiamo di quel suo dolce, struggente, amoroso legame con l’intimo mondo dei sentimenti elementari e della sicura convinzione, che gli è propria, di poter salvare quel mondo non vergognandosi della sua esistenza e rivendicando la sua piena legittimità poetica”.
Di tali osservazioni ho avuto altre volte l’occasione di ricordare, citandole, la giustezza, sia a riguardo della condizione dell’arte in quanto essa, con i suoi mezzi specifici di penetrazione di azione, è conoscenza della realtà (con tutto ciò che la conoscenza comporta, perfino quando tende ad isolarsi – e a restringersi – nella semplice trascrizione o nell’abbandono evasivo) sia nel proposito particolare della pittura di Quattrucci.
E se anche ora vi metto capo, lo faccio per sottolineare che queste stesse tele recenti, le quali in gran parte hanno l’aria di volerci proporre, benché elaborate nello studio, le impressioni immediate e accattivanti di un soggiorno in Spagna, scoprono un retroterra e un significato più vasti, intimi e durevoli, secondo l’attitudine costante del pittore a trasferire sul piano del valore, che tanto è pittorico quanto è umanamente e moralmente impegnato, ogni dato cronachistico, o spunto caratterizzante, o convenzionalità folcloristica la più consumata.
Le corride, i balli popolari, le cortigiane famose od oscure, le immagini del divismo televisivo e del turismo di massa non si affacciano infatti alla ribalta della nostra percettività visiva senza che le accompagni il commento del loro “illustratore”, che volontariamente sfida il cosiddetto rischio illustrativo, cimentandosi nella impaginazione piatta, elegante, ritagliata sul fondo compatto, da grande litografo, si direbbe.
Un commento sottile è perciò, a volte, non scopribile subito, fatto di molteplici e contraddittorie flessioni dell’animo: che sono la simpatia, magari condotta al limite del compiacimento sensuale per una vita di peccato – chiamiamola pur così – consegnata alla leggenda, o per il fasto effimero un costume o di uno spettacolo (ma la compromissione appartenente, smentita nell’attimo in cui ci pare di sorprenderla, e a negarla è l’effetto scattante e semplificante di un linearismo vigoroso, o di un colore acido ispessito, o anche di una calcolata assenza di colore, o di una illuminazione artificiale, o di un nero crepitante, funereo, da cui fuoriescono gli stampi di una testa, delle mani, dei ventagli, tutti del medesimo bianco spettrale); e poi l’ironia, il grottesco, la pietà, che si insinuano nelle tante facce tonde, tutte ridenti al medesimo modo, virgolare dal casco dei capelli neri appiccicati sulla fronte, o tagliate da un grosso accento carbonoso e sostituisce la descrittività dell’occhio: e lo fa essere giusto l’occhio gitano della tipologia convenzionale.
L’identica sostenutezza del disegno, che permane lo strumento primario di questi dipinti, traccia con energia gli elementi ambientali, sobri e radi: il bancone di un bar davanti a cui sostano le ragazze di vita, la panchina pubblica dove riposano le orrende turiste americane, i campi di spazio della arene dove la gran macchia nera è ferma del toro ha la solennità monumentale e funerea che seppe dargli, in pagine famose, F. T. Marinetti.
Le assunzioni culturali più evidenti, e puntuali nell’innesto, come citazioni veloci suggerite da associazioni memoriali nel farsi stesso dell’immagine, sono dall’Art Noveau e dalle stampe giapponesi, che del resto furono di quell’arte fonte principale (vedi, mettiamo, nelle ballerine di flamenco, il concludersi delle sottane a corolla di fiore). Ma il riscontro principale, e sorprendente, di queste tele di Quattrucci, nè soltanto in certi ritratti di donne alluttate, in mantiglie o in gramaglie, ma nella scrittura dei volti è propriamente nella qualità del segno e della stilizzazione, mi viene spontaneo di trovarlo nell’arte di Lorenzo Viani, essenziale scabra sebbene fortemente contenutistica e traboccante di tanti umori psicologici diversi.
Penso ai momenti in cui i disegni, gli acquarelli (confronta quelli stupendi nel Museo Civico di Novara) gli oli del vecchio maestro versigliese di estrazione anarchica, è altresì le sue prose, ma soprattutto certe sue poesie (queste ultime anche oggi, a torto, quasi affatto ignorate) volgevano a modi ironici, caricaturali, grotteschi, di una comicità non però divertente né divertita, che il problema di Viani era l’uomo, la commedia assurda della gente senza destino. Sicché posso ripetere qui ciò che molti anni fa scrivevo del Viani: che tutto è responsabilmente impegnativo per un artista vero, il bello e il brutto. Il tragico e il risibile, quando dentro ciascun “motivo” si commuove ogni volta una porzione vasta dell’umanità, si ribella un principio, trova forma un sentimento sociale.