Testi critici
Dario Micacchi | Prima antologia della giovane arte italiana
di Dario Micacchi
I Antologia della giovane arte italiana
Curando questa antologia della giovane pittura non è stata nostra intenzione di dare conto di quel che può esserci di meglio nell’ambito figurativo con il chiodo fisso del capolavoro e del nome più che consolidato nel gusto. Altre antologie seguiranno dedicate ad artisti, gruppi e movimenti figurativi e non figurativi allo scopo di favorire una nuova circolazione di opere e di idee.
E’ naturale, quindi, che la nostra scelta non sia quella del mercato e che il nostro punto di vista non riduca le possibilità realistiche della giovane pittura italiana alle ragioni estetiche e morali, pur fondamentali, del neo-realismo che è un momento importante ma definito in un tempo e in un luogo del più vasto conflitto fra oggettività e astrazione che tocca tutta la pittura moderna.
A noi premeva, oggi, di partire da una constatazione che ci è sembrata di grave momento per l’avvenire della giovane pittura italiana. Drammatica constatazione se, ad ogni passo, ci si trova a fare i conti con una smarrita e ansiosa condizione di solitudine dalla quale nascono sì opere anche nuove e coraggiose, ma che esige un prezzo troppo alto per concedere a un giovane di farsi avanti con fantasia libera e giudizio lucido.
Se si pone mente a ciò che rappresento la ragione antifascista per il moderno sviluppo degli artisti italiani, molti dei quali oggi sono nomi nazionali e internazionali, nelle condizioni più feroci dell’oscurantismo fascista, ancor più mostruoso appare questo volto della solitudine in un tempo che vede storicamente la ragione antifascista prender contenuto e forma di ragione socialista e correre per il mondo con un passo che non dà tregua. I pittori di questa mostra, dalla coscienza della condizione individuale hanno imparato, anche a proprie spese, la sterilità culturale e poetica delle soluzioni miracolistiche; e ciascuno, giorno dopo giorno, si affatica per trovare il punto giusto di congiunzione fra l’arco del proprio destino di pittore e l’arco a più lunga gittata del destino del nostro tempo.
Di questa luce di consapevolezza serena si illuminano le singole posizioni estetiche, diverse ma intimamente concordi nel liberarsi della solitudine con generosa e instancabile compromissione con la realtà, vivacissime nel districare un filo originale fra l’esperienza contraddittoria dell’avanguardia cubista ed espressionista e la dominante condizione manieristica figurativa e non figurativa (che è l’aspetto più disimpegnato e suggestivo del decadentismo, con la sua proposta di prestigiose e colte soluzioni di tecniche e di materie là dove urgono, invece, soluzioni rivoluzionarie di linguaggio).
Pittori più “plastici” che “espressionisti”, più preoccupati di un discorso essenziale e lucido che dell’urlo, potranno forse apparire, a prima vista, più scettici che appassionati, più “artigiani” in qualche caso che “avventurieri”. A noi questa è sembrata una qualità non trascurabile nella sterilità uggiosa del romanticismo tradizionale e dei maestri dell’urlo espressionista e dell’introversione surrealista. Ma intendiamoci bene: la diffidenza e lo scetticismo nei riguardi dei miti – compreso il mito dell’arte che riscatta e salva ogni cosa – caratterizzano la compromissione con la realtà come una compromissione razionale, solo in parte deviata da obiettivi essenziali a causa di quella solitudine nella condizione borghese che opera come un tarlo all’interno delle moderne istanze realistiche.
Coscienti fino alla nausea morale dell’usura di contenuti e di forme della tradizione, saggi abbastanza per disimpegnarsi con le esperienze dell’avanguardia storica senza dover buttare via con l’acqua il bambino, questi artisti riescono a figurare oggettivamente con la dura ma necessaria consapevolezza che la figuratività non è un manieristico e inconsapevole variare su soggetti consolidati dal gusto e da particolari strutture sociali.
E la crisi del linguaggio post-cubista in Italia con la sua degenerazione in automatismo sono oggi terreno di battaglia di pari conto che la crisi e l’elefantiasi letteraria e psicologica dei contenuti. (…)
I “notturni” romani di Carlo Quattrucci hanno una forte suggestione cinematografica per il “montaggio” del racconto e l’impaginatura del materiale plastico (come e anche per le pitture di Calabria); anzi, si direbbero immersi in un’atmosfera felliniana: un po’ di “Notti di Cabiria” e un po’ di “Vitelloni”. Forse, è però un mondo della strada di un narratore come Pasolini a lievitare positivamente nel contenuto di queste pitture.
L’impegno di fondo sul linguaggio e sulla caratterizzazione moderna dei personaggi e degli oggetti è spregiudicato e generoso fino in fondo, ma senza che il linguaggio degeneri fino a identificarsi con la materia orrida, lurida e alienata dell’oggetto.
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