Testi critici
Gianni Rodari | Prefazione al catalogo "Mostra d'arte figurativa per il xx anniversario della Liberazione"
di Gianni Rodari
Prefazione al catalogo della Mostra d'arte figurativa per il XX anniversario della Liberazione
I promotori della presente mostra, nel momento di spedire agli artisti italiani gli inviti a parteciparvi, supposero, per uno scrupolo comprensibile, di dover fare attenzione a non invitare qualche fascista. La supposizione risultò ben presto puramente teorica, lo scrupolo superfluo: non esistono in Italia artisti fascisti. In passato ne è esistito, ovviamente, più d’uno. Ma anche qui è necessaria una precisazione: sono esistiti uomini che si dicevano ed erano fascisti, e dipingevano, ma nella misura in cui essi erano autentici artisti, e non mestieranti o accademici che ponessero la carriera al sommo delle loro ambizioni, la loro pittura contraddiceva la loro ideologia, la loro arte negava la loro scelta politica. Pensavano di essere fascisti e dipingevano squallide periferie illuminare soltanto dalla disperazione, rappresentavano la tristezza e la mortificazione dell’uomo comune, erano loro malgrado testimoni della tragedia. Non serve far nomi, li abbiamo tutti presenti.
È esistita una retorica fascista, nel mondo dei colori come in quello della parola. Possono esserne rimasti vittime certi anziani per opportunismo, certi giovani per distrazione od errore. Ma nessuno ha potuto dipingere un quadro fascista, scrivere un romanzo fascista, una poesia fascista, da consegnare durevolmente alla storia della cultura nazionale.
L’arte è libertà, il fascismo era negazione della libertà.
L’arte è ricerca dell’umano, e per il fascismo l’uomo non era che strumento di potere.
Il crollo del fascismo, nella coscienza degli artisti italiani, è potuto essere totale, definitivo e irreversibile, perché il dominio del fascismo è sempre rimasto un fatto esteriore alla coscienza artistica, come del resto alla coscienza civile della maggioranza degli italiani. Il fascismo ha potuto mortificare i molti, corrompere veramente soltanto i pochi. Le adesioni forzare e passive che parevano diffondere e fondare sempre più saldamente il suo potere, in realtà lo minavano. I giovani cresciuti nella scuola e nelle organizzazioni fasciste, quando la Resistenza li chiamò a una scelta morale, prima ancora che ideologica, scelsero giusto, quasi tutti.
Il fascismo ci ha lasciato pesanti eredità nelle leggi, nelle strutture sociali, in certi ingranaggi della vita pubblica: ma nella coscienza nazionale e civile degli italiani esso è così morto come se non fosse mai stato vivo. Nato nella violenza, è caduto nella violenza, ha lasciato qualche strascico di teppismo. Ma se oggi c’è chi dipinge “gli eroi del manganello” non è per rimpiangerli o per esaltarli, è per aggiungere condanna a condanna, per rifiutare tutto ciò che rappresentano.
In questo rifiuto sono ormai unite più generazioni di italiani. Se ne può fare inventario percorrendo i nomi, i temi e le immagini di questa mostra. C’è la prima generazione antifascista, quella che ricorda il ’19, gli “arditi del popolo”, Gramsci, Gobetti, Amendola, il “processore”, le carceri; e c’è la più giovane, quella che non ha visto Mussolini ma vede Franco, quella che riconosce i nuovi eroi, i Salvatore Carnevale, i Lambrakis, i morti del Luglio del Settanta e rinverdisce nel loro nome un’antica protesta. Tra questi due estremi c’è la generazione degli emigrati, dei combattenti di Spagna: rinchiusi nel campo di concentramento di Vernet essi dipinsero, per vivere, le poetiche cartoline qui raccolte come un prezioso documento che non rivede senza commozione. Ci sono gli artisti che, vivendo in Italia sotto il fascismo, seppero dare al loro lavoro un inequivocabile significato di profonda, coraggiosa opposizione. E c’è la generazione chiamata, svegliata, gettata dalla Resistenza a vivere e lottare “più in alto”, negli anni duri e gloriosi che hanno mutato le nostre esistenze.
Non c’è da meravigliarsi che i titoli delle opere esposte, letti in un certo ordine, sembrino i titoli dei capitoli di un libro di storia. Non è compito degli artisti scrivere la storia, e chi li obbligasse a questo tradirebbe insieme le ragioni della storia, e chi li obbligasse a questo tradirebbe insieme le ragioni della storia e quelle dell’arte. Ma vi sono periodi storici in cui tutto ciò che è umano – virtù e violenza, delitto e sacrificio, morte e e vittoria – prende improvvisamente proporzioni ingigantite, apparenze che gridano il loro significato, la crosta del quotidiano del banale dell’abitudinario cade, ogni uomo è personalmente e profondamente coinvolto in una vicenda che lo supera ma che egli sente più sua d’ogni altra, e ogni sua volontà è coinvolta: l’arte per prima.
L’uomo di domani – che sarà, speriamo, più sereno di noi, ma non per questo sordo alla nostra storia – se cercherà nella pittura del nostro tempo le tracce del fascismo e del nazismo vi troverà l’angoscia e gli orrori di Dachau, di Buchenwald, di Mauthausen, delle Fosse Ardeatine, i massacri, la paura. Probabilmente egli saprà vedere tutto ciò anche nelle immagini di tanta pittura contemporanea che chiamiamo “astratta” ma che sarà per lui, in quella chiave, perfettamente leggibile. Perché l’artista è sempre testimone, anche quando non ne è consapevole, anche quando crede di obbedire soltanto alla legge della sua sincerità- anche quando gioca. Né il nostro tempo ha potuto completamente liberarsi dalla paura. Può fingere di dimenticarsene, perché le armi atomiche sono ben nascoste. Possiamo illuderci di vivere la nostra vita d’ogni giorno prescindendo dalla loro esistenza. In realtà ce le portiamo addosso, ce le portiamo dentro. Sconfiggere la loro minaccia non è meno importante di quanto sia stato sconfiggere il fascismo. Un osservatore superficiale si potrebbe domandare perché gli artisti ci offrano soltanto rappresentazioni drammatiche di una realtà che pure ha avuto, tra le sue componenti, la gioia della liberazione e della vittoria. Una verità, e non solo perché esistono le bombe atomiche, non ci sembra che la nostra epoca sia tale da incoraggiare gli atteggiamenti contemplativi: e lasciamo stare quelli celebrativi, con i quali ben raramente l’arte ha qualcosa in comune. Come le forze dell’antifascismo e della Resistenza non potranno considerare esaurito il loro compito fon che idee di libertà e di giustizia da cui mossero non si saranno completamente incarnare nelle istituzioni, nella vita, nella civiltà italiana, e non soltanto italiana, così, probabilmente, gli artisti rifiutano una funzione consolatori. È anche questo un modo di non essere complici, oggi, con le forze oggettive e soggettive che vorrebbero convincerci a deporre spiritualmente le armi, a scavarci una nicchia qualsiasi nel mondo com’è, rinunciando ad esserne u testi d’accusa. Ed è, ci sembra, un modo di esimersi e di distinguersi da certe “commemorazioni” della Resistenza che all’ossequio formale finiscono col dare un significato, ambiguo, come se si trattasse di ricordare le vittime del fascismo e del nazismo e non la lotta antifascista e antinazista e le lezioni di quella lotta, una tragedia passata e archiviata e non un dramma che continua, in Italia e fuori, qualunque sia la maschera dell’oppressore e il volto, il colore di chi lotta per la sua libertà.
Un’ultima avvertenza sarà addirittura ovvia: questa mostra non è che un episodio, un contributo importante ma occasionale alla conoscenza dei rapporti tra la pittura, la Resistenza e l’antifascismo. Ben più ricco apparirà, quando sarà tentato, il catalogo completo delle opere ispirate al più glorioso capitolo della nostra storia nazionale. Apparirà evidente allora ciò che qui possiamo soltanto affermare: e cioè che nessun altro periodo della storia italiana ha colpito con altrettanta forza la fantasia e la coscienza degli artisti, nessun altro avvenimento ha costretto tanti artisti perfino a rivedere alle radici le ragioni e i modi del loro lavoro, la loro posizione nel mondo e di fronte al mondo. Al di là dei risultati, che è compito dei critici giudicare, al di là anche delle polemiche estetiche e degli scontri di tendenza, che interessano lo storico della cultura, possiamo prendere atto del fenomeno come di un altro segno della vitalità delle idee della Resistenza, della loro fecondità in ogni direzione di quella che chiamiamo vita spirituale forse siamo troppo vicini agli avvenimenti, anzi, siamo addirittura nel loro cuore, e non possiamo afferrare ancora tutto il valore di questa rinascita. L’aratro continua a scavare in noi e intorno a noi: è presto per misurare il solco. Ciò che sentiamo, e che anche i pittori di questa mostra ci aiutano a sentire, è che la lotta non è mai vana, quando è giusta.