Febbraio 1, 1970In Spagna, testi critici, dai cataloghi, 1970
Testi critici

Corrado Marsan | España 1936-19... non sono passati gli anni

di Corrado Marsan
Dalla libro "España 1936-19..."


Quello che colpisce subito, a fondo, nella cospicua opera grafica e pittorica di Carlo Quattrucci, è la dose di costante e imprescindibile ansietà che, per l’artista, rappresenta una delle possibilità più immediate per porsi di fronte al mondo contemporaneo, rimettendo in causa – nello stesso frangente – ogni sorta di simbolo storico appartenente a un passato più o meno remoto. Come dire, in altre parole, che Quattrucci non si lascia prendere la mano dalla simbologia del potere storico in sé e per sé (si veda, ad esempio, con quanta “confidenza” e con quanta intelligenza l’artista è venuto intrattenendosi, sulla tela o su un foglio, in questi ultimi due anni, con alcune indimenticabili “figure” del canzoniere di Lorca, di Machado o di Rafael Alberti) o, sull’altro lato, dai miti e dai riti di una contraddittoria realtà contingente (e si osservi attentamente, in proposito, il grande trittico “Il tiranno e lo specchio”: qui, è evidente, il profilo del “generalissimo Franco”, si trasforma, con lo sdoppiamento e lo sfaldamento dell’immagine, nella “sagoma” – più intravista che realmente “tracciata” – di un patetico maestro di danza che dirige un “tragico minuetto” in onore dell’ultimo crepuscolo degli dei): bensì, e come non potrebbe essere altrimenti, Quattrucci mira a recuperare i valori del passato storico, riattivandoli e riproponendoli in una dimensione o, meglio in una tensione lirico-ideologica che tiene sempre presenti tanto i “frutti” (la grazia, la fede, l’umanità delle cose e la meraviglia, ad esempio) di un insopprimibile “sentimento del tempo” quanto i totem e gli aggregati di questi confusi ma pur splendidi “anni settanta”. Di qui, dunque, la coraggiosa sincerità con cui Quattrucci ha sempre portato avanti, fino dall’ormai lontana stagione degli esordi, un preciso e civilissimo rapporto dialogico con il paesaggio, con le cose e con gli “avvenimenti che ci circondano: un atto, cioè, che si compie – nel diario ora spietato e sensuale, ora ironico e grottesco, ora fortemente critico e autocritico di Quattrucci – senza che i simboli storici, appunto, finiscano col prendere il sopravvento sui simboli tipici dei nostri anni (una congerie pressante di figure devastate, prodotti e frammenti culturali, immagini dirette o mediate che si oggettivano davanti a noi e si dilatano coinvolgendoci); sì che il racconto è sotteso e animato, di sequenza in sequenza, da una serie di visioni e di variazioni dettate da un incessante raccordo di dati mnemonici che affiorano, con la regolarità di un pendolo, dal “fondo” di una lampante, mostruosa e violentissima epica del quotidiano.
Ma veniamo, adesso, all’”istinto” di Quattrucci, a una delle componenti fondamentali, cioeè, della sua metodologia espressiva. Si può forse “fare prigioniero” l’istinto? Impossibile: e Quattrucci, da quel paziente ricercatore che è, non ha mai sottovalutato il “peso” dell’istinto, mentre è sempre rifuggito dall’originalità a tutti i costi, mirando, di contro, al lavoro testardo di ogni giorno. A un duro tirocinio, in altri termini, che “guidato” dall’istinto – è venuto puntualizzandosi e rivelandosi, di opera in opera, in una nozione che è, insieme, di stile e di struttura narrativa: e al fondo di questa minuziosa indagine dei nessi logici e sintattici (un’indagine che si rifà e si affida, nella sua ininterrotta metamorfosi, ad un accurato calcolo critico della parola e del segno, del “gesto” e del colore che lo “riempie” o lo ricopre secondo una libera geometria di accostamenti e di compenetrazioni, di fratture improvvise e di ripercussioni reiterate, e quanto mai opportune, dentro a una materia variamente piegata a toni di racconto ora epico e leggendario, ora picaresco e crudele, ora sospinto dal furore e da una fattispecie di contestazione intesa a rinsaldare, nelle varie cadenze del linguaggio, la “armonia” tra sacro e profano, tra giudizio ed emozione, tra ricordo e presentimento, tra calma e violenza). Quattrucci è sempre riuscito a ritrovare – affrontando gli “oggetti” piu disparati: un uomo o un cavallo, un fiore o un uccello, una foglia o un paesaggio, un sasso o un fossile -, la via della poesia e della “grazia”.
Una poesia di protesta: ma anche, e anzitutto, una poesia dedicata agli orrori e agli errori commessi dal cosi detto “homo sapiens” col benestare della “storia”. Una poesia, dunque, che non ammaina mai le sue insegne, neppure quando l’artista scende, a capo scoperto e incurante dei rischi cui va incontro, nell’occhio del tifone: e una volta trascinata, con mille espedienti e per cause impreviste e imprevedibili, al fondo di ogni “calata agli inferi” (una calata che, tra fissità e moto o tra metodo e “contemplazione” ci rivela l’incontro scontro di Quattrucci con una congerie avventante di passioni e di vendette, di traumi e di desideri, di fughe precipitose e abbandoni improvvisi e rovinosi: ma c’è anche, in questa calata, a ben leggere al di là della semplice “apparenza” delle immagini, la traccia dell’allucinante incontro-scontro dell’artista con la folla anonima, con una folla scatenata, con una folla innocua, con una folla deliberatamente suicida o, restringendo l’indagine, con un piccolo uomo agonizzante, con un uomo colpito alle spalle, con un uomo che prega, con una donna “violentata” dal vento o con un martire della liberta), quella poesia ha ancora la forza necessaria per tornare a galla e per imporsi di slancio, magari nella ballata macabra del cavaliere ferito a morte, ad ogni sorta di “furor mathematicus” sotteso da ambigui ed effimeri richiami di gusto e di cultura.
E la poesia di Quattrucci è, tutto sommato, come un “dono” che si ripete, immutato, nel tempo e nella durata di una visione provvisoria e nella sintesi della visione successiva. Ma questo dono è forse il frutto delle “convulsioni” di cui parlava Breton? Puo darsi in qualche “occasione”: nella continuità delle soluzioni di Quattrucci, di contro, siamo più portati a credere che, tra alchimia e insonnia o tra psicosi e riflessione, l’artista si porti dietro quel dono (abbia sempre dentro di sé, in altre parole, la “sensazione” di quella poesia: e ci riferiamo in modo particolare, ad opere quali “Bella e il vento”, “Il cavaliere”, “Mattinate”, “Il cacciatore” e “Il tiranno e lo specchio”) come simbolo di un “dovere” ormai acquisito e come testimonianza di un patto che risale, appunto, alle origini del suo itinerario iconografico.
Ma dove vuole arrivare, in definitiva, Quattrucci? Che altro attendersi da questo suo inventario caratterizzato, di pagina in pagina, da un insieme tumultuoso di ripensamenti e di idilli? Difficile rispondere: perché i simboli di Quattrucci (simboli-trofei strettamente legati a una continua variazione sul tema “uomo-ambiente”), oltre ad essere gli strumenti mutevoli del suo alfabeto, sono anche mostri, idoli e fantasmi sempre pronti a sciogliersi, a diradarsi, a sparire. Sì che la parola ultima, in ogni opera dell’artista, non è mai circoscritta ai singoli elementi presi in se stessi, alla loro frammentaria incisività, ma – al contrario – al gioco d’insieme, al rapporto tra presenza e lontananza, all’attrito tra questi due momenti, alla condensazione di significati che ne risulta: e proprio in questi passaggi, a ben vedere, Quattrucci ha intuito, felicemente, qual è lo spazio giusto per le operazioni della poesia e qual è l’intervallo (cioè il salto qualitativo) in cui, tra progetto e stile o tra istinto e fantasia, si decide il destino di un’opera. E una ironia sottile e penetrante è, infine, il prezioso e puntuale elemento di rottura che garantisce – anche nell’ennesima variazione sullo stesso soggetto – l’affermarsi e il riproporsi di una mai sopita “disponibilità delle forme”.