Testi critici
Mario De Micheli | Dialogo con i poeti
di Mario De Micheli
Dal libro "España 1936-19..."
Se è vero che un testo poetico ha il potere di far scattare dentro di noi la molla dell’immaginazione e dei sentimenti, sembra indubitabile che in un pittore tale provocazione di sentimenti e d’immaginazione si trasformi naturalmente in traslato figurativo. Forse questa è addirittura una “legge” del rapporto tra l’artista e il poeta, forse, voglio dire, è la costante normale di ogni vero dialogo fra questi due personaggi. Del resto il discorso si può rovesciare: Ut pictura poesis. È certo comunque che proprio in questi termini si è verificato l’incontro di Quattrucci con Machado, Lorca e Alberti.
Da quando Quattrucci ha lavorato in Messico nell’atelier di Siqueiros, alcuni anni fa e la lingua spagnola gli e diventata familiare. A questo proposito egli parla dello spagnolo come di “seconda lingua madre”. E in realtà, a quanto mi hanno detto i suoi amici messicani l’assimilazione dello spagnolo da parte di Quattrucci, un’assimilazione nello spirito e nei modi, è avvenuta con straordinaria rapidità. La lettura appassionata dei poeti gli ha poi permesso una ricognizione linguistica più larga e profonda, una conoscenza specifica anche delle diversità fra lo spagnolo che si parla in Messico e quello che si parla in Spagna.
Ma le ragioni per cui egli si è così intensamente dedicato alla lettura di Machado, Lorca e Alberti, insieme con l’amore per la lingua fresca, aperta, scintillante che essi adoperano, sono anche altre. Sono cioè affinità di pensiero, inclinazioni analoghe, convinzioni che nascono da uguali radici.
Non c’è dubbio che il carattere di fondo della poesia di questi tre “grandi” della letteratura spagnola consista nella risoluta persuasione della “verità” dell’uomo, nel loro atteggiamento limpidissimo in favore dei valori esistenziali e civili. Non mancano in questo senso le loro più esplicite dichiarazioni di poetica.
Di Lorca ad esempio:
…dire la mia verità di uomo di sangue
uccidendo in me la beffa e la suggestione della parola.
Prima del quadro che tu paziente disegni
C’è il seno di Teresa, dalla pelle insonne,
c’è l’aspro ricciolo di Matilde l’ingrata
e la nostra amicizia dipinta come il gioco dell’oca.
O di Alberti:
Non è più profondo il poeta rinchiuso nel suo buio sottosuolo.
Il suo canto raggiunge il profondo
Allorché, aperto al vento, è ormai di tutti gli uomini
O di Machado, nei versi dedicati a Lister, comandante delle truppe dell’Ebro durante la guerra antifranchista:
Dove la conchiglia marina annuncia la foce
Dell’Ebro è il gelido sasso la sorgente
Dove nasce questo simbolo rosso della Spagna,
dal monte al mare, ecco la mia parola:
“Valesse questa penna il tuo revolver
di capitano, morirei contento!”
Ma l’opera intera di questi tre poeti, in ogni strofa, nelle cadenze e negli impulsi anche più apparentemente lontani da preoccupazioni come queste, è percorsa da una corrente di vita. Odio e amore, allegria e tormento, elogio e invettiva: e di tutto ciò che sono fatte le parole di Machado, Lorca e Alberti. E di mare e di cielo, di terra e di fiume, di donne e d’animali.
Da una lettura attenta alla varietà di ognuno di questi motivi, Quattrucci ha ricavato una spinta emotiva e fantastica che gli ha consentito il dispiegamento delle sue qualità più intime, liriche e narrative insieme, qualità di contemplazione, d’invenzione, e soprattutto di una trasparente misura plastica, che sa mutare il tema del poeta in situazione propria. Poiché è questo aspetto, in particolare, che va sottolineato dell’operazione figurativa di Quattrucci. Egli cioè non si e applicato ad “illustrare” un testo, bensì, fra i testi che si è trovato davanti, ha scelto soltanto quelli che più profondamente coinvolgevano la sua natura, le sue idee e le sue passioni. In altri termini ha trattato il testo come se fosse, e di fatto era, un avvenimento della sua più segreta biografia, come autentica “materia” della propria concitazione interiore.
Da una tale sicura disposizione verso il suo assunto, Quattrucci ha proceduto ad elaborare senza inutili remore, con la più ampia libertà, il ciclo dei suoi dipinti, dove s’incontrano eroi e tiranni, colombe e cavalli notturni, i seni farinosi della giovane ostessa e l’uomo ferito, paesaggi d’alba e paesaggi d’incendio: un ciclo spagnolo, che tuttavia non ha confini, come del resto ogni vera “regione poetica” : tra quadri e disegni, un ciclo di oltre una ventina di opere. Il linguaggio di Quattrucci possiede una virtù di sintesi che scioglie l’immagine anziché renderla contratta: il contesto dell’immagine cioè, nella sua enunciazione plastica, si semplifica in una essenzialità non schematica, dove grafia e colore si integrano spontaneamente: una grafia, fluida, nitida, ondulata; un colore limpido, che ha buie profondità e brillanti accensioni senza però perdere mai la sua dote di ventilata stesura. In genere la grafia tende a stabilire i margini generali dell’immagine, mentre il colore a larghe partiture vi si distende all’interno, evitando ogni contrasto risentito, trovando la soluzione, nel passaggio da una zona all’altra, in un rapporto cromatico concomitante.
Il risultato è quello di un’immagine che vive tra simbolo e immediatezza, tra realtà osservata e amata e realtà sollevata a un puro livello contemplativo. Quattrucci si muove, è il caso di dirlo, sul classico filo del rasoio. La sua è una pittura difficile, non già perché ermetica, ma perché la riduzione stilistica ch’egli impiega nella strutturazione delle sue immagini, è quanto mai al limite fragilissimo fra un estremo di purezza e il rischio di una dissolvenza in uno spazio vuoto, privo di risonanza. Ma è proprio su questo filo del rasoio che Quattrucci insiste a far stare in bilico, in un difficoltoso equilibrio, le sue immagini, convinto com’è che il rischio è l’unico bene di cui la pittura e la poesia devono nutrirsi.
E’ questo quindi che bisogna apprezzare della pittura di Quattrucci, la purezza, la trasparenza, il dolce e nitido slancio, la convinzione ferma di dover definire l’immagine, di renderla chiara e leggibile sia pure col pericolo di spezzare il fragile equilibrio del quadro.
Ma si tenga presente che una simile convinzione è parte integrante della visione di Quattrucci, è la stessa convinzione che l’ha avvicinato ai testi di Machado, di Lorca e di Alberti. L’inclinazione ad accogliere in sé i momenti più struggenti, o drammatici, o esaltanti della vita, coincide infatti col rifiuto della solitudine come condizione ineluttabile dell’esistenza. Ed è in questa inclinazione, dove confluiscono o da dove si dipartono anche le ragioni di ogni altro comportamento morale e politico, che prende appunto energia il suo libero linguaggio di comunicazione, di cui egli non potrà mai fare a meno.
Quattrucci si colloca così nell’ambito di quella tendenza figurativa che oggi appare come una fra le più vive, ma vi si colloca con un profilo non confondibile. Egli non è un pittore di critica sociale, non è un pittore di epoca civile, non è un pittore di contestazione alla ricerca di una formulazione plastica desunta dai mezzi impiegati dai mass media. E’, al contrario, un pittore che ha bisogno di trattare ogni suo tema mediante una trasposizione lirica che filtra il motivo sino ad enunciarlo senza strappi espressionistici, senza iperboli d’urto, senza l’uso di una iconologia banalizzata. Ma ciò, si badi, non significa che dalle tele non scaturisca esplicitamente il senso delle sue scelte, dei suoi desideri e dei suoi giudizi; significa solo che tale senso è trasferito sullo schermo dell’immaginazione senza residui.
Machado canta
<< Una locanda della mia strada. Con una posta di vestale, tu servi il rosso vino d’un baccanale di periferia.>>
E Lorca domanda:
“Cavallino nero.
Dove porti il tuo cavaliere morto?”
E Alberti incalza:
“Questa rotonda pancia biancastra,
questo muso feroce,
questi acuti denti,
questi occhi sinistri circondati di sangue,
questo triste pelame frusto che ti copre,
queste unghie incurvate
questa coda che oscilla sollevata nell’ombra.”
L’amore, la tragedia, la morte: le parole calme, pulite, calibrate di Machado; il ritmo gitano e popolare di Lorca; lo scatto preciso, ironico-grottesco di Alberti. E’ questa dunque la “materia” in cui Quattrucci si è immerso, la “materia” che ha assimilato, sviluppando da essa il discorso plastico nella coerenza del suo linguaggio, riconducendola cioè al denominatore comune della propria sensibilità e rifondendo così la varietà dei poeti nell’unicità della propria temperie lirica, nel segno finale della propria espressione. D’altronde questa era la sola operazione possibile e Quattrucci l’ha felicemente compiuta.