Febbraio 1, 1970In Spagna, testi critici, dai cataloghi, 1970
Testi critici

Elio Mercuri | España 1936-19 non sono passati gli anni

di Elio Mercuri
Dal libro "España 1936-19… non sono passati gli anni"


La Spagna è per noi molti fatti: è l’epopea di cui parla Eugenio D’Ors: “Fuentetodos, Madrigal de las Altas Torres, Saragozza e Segovia, Madrid e Granada; Valladolid, Aranjuez, la Tierra de Campos, l’Estremadura, Jerez, Arevalo, Valencia, Navarra; la montagna e il mare; la corte e il bosco dei Cenobiti.. e Cisneros con Carlo III; il Conte di Tendilla con Pepe-Hillo, la Duchessa d’Alba col Papa Alessandro VI, il Re di Francia con Giovanna la pazza, Goya, Bayeux, Rosarito, Berruguete, Moratin e il gran Capitano…”.
E’ l’elenco di ciò che è la Spagna, di storia e leggenda, oltre qualunque riferimento di tempo e di luogo è ancorata ad una realtà potrebbe diventare interminabile: memoria antica di civiltà mediterranea, concezione del mondo e insieme simbolo del dramma che segnava il destino di caduta della democrazia dell’Europa. Spagna 1936; o un altro anno per quanto significativo annullato da una età senza storia; voce di una poesia e di un’arte immortali.
Carlo Quattrucci ha rivissuto tutto ciò quasi come ricerca nel profondo di sé, di una parte di storia perduta ancestrale, senza ricongiungimento con essa destinato alla non maturità; come emozione di una scoperta, nella luce meridiana, o nel canto di una sera, della Spagna luogo del mondo, o patria di elezione a lungo invocata, terra da ritrovare seguendo l’eco di una misteriosa corrispondenza. E l’uomo sulla soglia di questa Spagna amata, è mutato; ha assunto su di sé il peso di questa memoria ed e mutata l’opera sua, cioè la pittura. E’ il tono della pittura di questo ciclo: dove questo sentimento si associa, come commento visivo alla voce di una poesia amata, di Rafael Alberti, Lorca, Machado; di una tradizione senza nomi eppure non meno bella e sincera, voce di popolo; mentre il segno ne sottolinea le pause e ne accenna il ritmo di verso o di cantata che improvvisamente, come voce lontana, o interiore è indistinta ancora assonanza ci avvolge in un paesaggio di sortilegio e di magia.
Siamo al passaggio dall’abbandono lirico di certi suoi precedenti paesaggi o fiori nati nella visione felice e nella partecipazione commossa a quella che resta la più vera delle nostre possibilità di bellezza, all’evocazione di questa atmosfera di mistero che è la Spagna. L’aderenza alla natura come meditazione, o struggente malia fermata nell’emozione dell’occhio, la ricerca di una realtà, di incontri veri e di rapporti sicuri con la terra, il mare, il cielo cede alla contemplazione di questa immagine di sogno e di storia. Siamo già oltre, l’insistenza e la esasperazione, la passione dei suoi ritratti del Black Power; del suo interrogativo angoscioso sul problema dei negri o del destino di questo Occidente: in una dimensione diversa e imponderabile ad un tempo e ad una storia, già sottratta al fluire dei giorni.
Così le immagini acquistano come una loro lievitazione di sogno; una trasparenza di toni che sfuma i contorni e ne trapassa il senso; divengono allusione a questa trama di relazioni, di attese e di mistero, di analogie e segreti che fanno da sfondo al dramma di un popolo e alla sua lotta per la libertà. La forma si costruisce lungo le tracce di una visione interiore; non più in riferimento immediato alla realtà esterna, ma come tentativo, ripetuto e cercato, o soluzione improvvisa di un proprio intimo discorso, che filtra l’istintiva emozione di una voce di poesia; approssimazione a questo sentimento maturato, nell’incontro inatteso, nel vivo di un impegno umano sempre più totale. La facilità illustrativa sparisce davanti alla perentoria verità di questo atteggiamento sincero ed onesto, la composta accettazione, nella tragedia di un popolo e di una terra di un proprio, personale destino.
Il cavaliere morente o il cacciatore sulla neve; la cattedrale di Belchite, o l’ala di uno stukas, persino le fredde e metalliche metamorfosi del ritratto di Franco; i paesaggi di Spagna, ci si propongono sempre oltre la determinazione astratta e meccanica di un confronto reale; in una loro corrispondenza assoluta: momenti contrastanti di quel mistero e di quel sogno che è la Spagna; una Spagna concreta, storica, politica; eppure segnata da un più profondo e imponderabile destino. Siamo di fronte ad un nuovo tipo d’impegno; non già quello arido e precostituito di un’adesione meccanica, politica o no, agli accadimenti di un tempo; ma altro, di interrogazione e di indagine, a partire da noi, da questo ricordo che brucia, da quella visione che offende; da noi in rapporto a un mondo, alla voce profetica e solitaria di una poesia che diviene coscienza di popolo; idea e immagine di pittura. Pensiamo ai poeti che Quattrucci ricorda; pensiamo ad altri Salinas o Cernuda; alle canzoni di protesta che si compongono in un canzoniere emozionante ed eroico. “Canteremo la vita/ canteremo la nostra vita/ di popolo che non vuole morire” dice Raimon poeta catalano di oggi; o “Io sono la voce del popolo, / che canta e ride con lui, / la voce che piange”, del poeta gallego Lois Dieguez-Benedisto: una voce che la dittatura non può vincere. Quattrucci è stato preso dall’eco di questa voce e ha cercato di dar corpo e forma al sentimento che è nato in lui. Lungo il percorso di questa emozione è arrivato alla storia, ma come verità, di un rapporto immediato e umano, come intuizione e certezza di un giudizio e di una scelta. Allora la Spagna di sempre amata nella voce dei suoi poeti e dei suoi canti; vagheggiata nella bellezza della sua natura ci si para davanti indistruttibile e grande; condanna dell’altra della falange e dei mercoledì delle ceneri, di Franco e del regime, bastarda e corrotta. Nella passione che suscita, nella lotta che brucia, nell’eco che diffonde, e la Spagna viva che vince.
Nell’amarezza dell’ora presente, oltre l’ombra della sconfitta che ci opprime, lo sguardo si fissa su un’immagine, incorrotta e immortale della Spagna, su qualcosa che non finisce lì, chiusa nel cerchio nero di una determinazione di spazio e di tempo, e che quindi sia pure in un frammento, e per una sottile striscia è già oltre la disfatta e anticipa o svela una dimensione di realtà che dà forma alle aspirazioni inconsce di una memoria assoluta. È la Spagna di Picasso e di Mirò, di Alberti, di Lorca, di Machado e una Spagna ancora più antica e vetusta di storia e di arte che ritrova la sua forza lontana dalla magnificenza della corte e della chiesa, nell’essere popolo e terra; leggenda e verità, tutto ciò che con sensibilità felice Carlo Quattrucci ha fermato in questo ciclo di quadri, raggiungendo una vera autentica pittura della realtà in quanto arte determinata all’urgenza vitale. Consapevole poi di come il sogno e il mistero sono parte ineliminabile del mondo, essenze della terra, più forti di ogni dittatore, indomabili ad ogni regime. È accaduto allora che ciò che nessun discorso o astratta elaborazione poteva offrire, sia venuto attraverso questa intima corrispondenza di sensibilità e poesia, e che Quattrucci tocchi il segreto di un popolo e di una terra, l’eco di quella tradizione barocca è allucinativa e incantata, dell’irrealtà reale di Unamuno, parte integrante dell’anima spagnola dove misura dell’esistenza diviene eternità e della vita la morte. Abbia cioè saputo aprire gli occhi alla visione di ciò che della Spagna è vita dietro il richiamo di una poesia (di Alberti, Lorca, Machado), che è verità cioè impegno etico, civile e umano.