Testi critici
Carlo Levi | Prefazione al catalogo "21 autoritratti"
di Carlo Levi
Prefazione alla mostra
"21 Autoritratti"
Queste ventun immagini, prima e al di là delle loro evidenti (e eccellenti) qualità pittoriche, prima o al di là della loro singola esistenza di quadro, delle loro particolari proposte e soluzioni di colore e di gamma, di proporzioni, di linea, di allusione, di analogia, di struttura, ci costringono a vederle tutte insieme, come un tutto non separabile.
Sono, sì, ventuno autoritratti di Carlo Quattrucci. Ma sono anche un multiplo, una famiglia, una tribù, un popolo di identici. In tutti i modi così diversi in cui il pittore si rappresenta, la sua figura resta immodificata e permanente, come fissata per sempre nei suoi ritratti essenziali che non comportano mutamento: negli occhi obliqui, nella barba, nel pallore, negli zigomi un po’ mongoli, negli occhiali dove una lente e disegnata e l’altra supposta o inesistente. L’identità della persona è indifferente al tempo. Allo spazio, alla storia, al nome nel quale è immersa e che lo avvolge.
Eppure questi attributi non sono secondari: e tanto meno sono maschere o ornamenti esterni, nei quali l’autore, come per gioco di travestimento, si compiaccia. Sono desideri, o sogni? O simboli di una parte di sé, messi fuori in modo di esempio? O espressioni del senso delle infinite molteplicità? O di quella più particolare e molteplicità della persona, che fa scrivere, ad esempio, a Vosmesemski una poesia sulle sue sette anime (oltre la sua anima) (egli voleva per questo intitolare il suo libro “8 Vosnesenki 8” e muto avviso, dopo una notte di discussione, soltanto quando gliene suggerii uno migliore)? O sono immaginazioni, quel senso infantile di poter essere qualunque cosa? O sono solo una scelta (questi personaggi, anche quando sono Dracula o Samurai o Alboino o Cortes, sono tutti, e non soltanto Lenin o Robespierre o Velasquez o Giordano Bruno o Lumumba – degli eroi, in vario modo positivi)? O sono un modo simbolico, come dei tarocchi, per segnare in linguaggio misterico, un destino che non vuole essere individuale, ma valere come esempio? In ogni modo, è esclusa una totale identificazione. Ove questo vi fosse, il viso dell’autore non potrebbe restare identico in ciascuna delle sue incarnazioni ma, almeno in qualcosa, si modificherebbe secondo il personaggio. Questi quadri contestano ogni scienza fisiognomica, che pretende (e giustamente) di poter leggere sui tratti dei volti la storia e il carattere della persona. Quattrucci, quanto più penetra nel personaggio rappresentato, tanto più resta identico a sé, estraneo, non modificato in nulla dal mondo o dalla società in cui si pone come avventuroso protagonista. La sua barba, i suoi occhiali con una sola lente, sono il piede di capra che il diavolo, in qualunque incarnazione o travestimento non riesce a nascondere.
È il diavolo: non l’autore che ce lo rappresenta con una sola faccia, e che lo sottolinea, tanto da farci pensare che questo non sia che un viaggio faustiano in tutti i mondi possibili, resi verosimili, nella loro irrealtà, da quella presenza demoniaca. Re, imperatori, capi di rivoluzionari, guerrieri, amatori, marinai, musici, pittori, si impersonano evocati per incanto, e possono per incanto dissolversi e tornare al loro tempo: e il femminino eterno (cosi mi pare intenda Maria Teresa Leon) non può ancora esserci, né comparire, perché l’incanto non è giunto al suo temine, alla sua drammatica soluzione.
Il compito di quest’opera è dunque un fatto magico, una azione, una appropriazione magica? O non piuttosto un esorcismo? “chi ci libererà dalla magia?” Forse proprio soltanto la pittura, che (come questa di Quattrucci) è, per sua natura, liberatoria.