Maggio 1, 1982In Roma, testi critici, dai cataloghi, 1982
Testi critici

Fortunato Bellonzi | 2° annuale di Salsomaggiore

di Fortunato Bellonzi
Salsomaggiore
1 - 23 maggio 1982


Non saprei da dove provenisse a Carlo Quattrucci, se non dal fondo del suo animo, la scelta “nordica” di illuminazioni fredde, di intarsi di colore piatto e vivido, disposto ai fieri contrasti; e quel primato del nero: non soltanto nelle scritture impiegate ad articolare con forza il campo dell’immagine ( propriamente a impaginarla, con gusto grafico sicuro) o nelle zone di stese d’ombra assorbente, senza speranza di luce o sopravvivenza di toni locali; ma anche dominante l’intero mondo di visione, poiché senti che dovunque il nero interviene ad appannare gli azzurri dei cieli di metallo e i verdi dei prati artificiali, ad assediare i gialli e i rossi schietti, affinché non gridino la loro festa, e i bianchi assoluti ( spettrali, diresti a volte ) che immettono lame sdegnose di cosciente rifiuto delle lusinghe e dei giochi della pittura.
Tranne qualche momento di stupore intenerito, davanti alla gittata dei ponti sul Tevere fermo sotto la lampada di un sole in sfacelo, o davanti alle vedute della di Villa Lante nel silenzio del tramonto, la Roma di Quattrucci cede tutto l’oro e la vinaccia della propria tradizione figurale perché al suo posto trionfi un cromatismo insolito, che può rimandarci alla pittura nordeuropea, a Munch, ai tedeschi; ma per affinità elettive, non per acquisti formali. Né mi paiono infine additabili ragionevolmente fonti di cultura, neppure ripercorrendo la strada avventurosa che il pittore consumò, e i molti e contrastanti incontri che ebbe con paesi, uomini ed eventi lontani. Certo le molteplici esperienze da lui compiute, tra cui quella in Messico, accanto a Siqueiros, non saranno passate invano, ma non se ne scopre traccia.
Quel modo, mettiamo, di scavare l’argine del fiume e di gettargli sopra d’impeto un ponte, non si impara se non con l’ascoltazione di sé, nel profondo; se non col sorvegliato abbandono di un attimo al motivo, cui subentreranno la lenta, concentrata meditazione su quello, e le semplificazioni formali via via suggerite dalla memoria che rivive il veduto, per darci infine l’immagine, autonoma, esatta, nei modi strettamente personali, del pittore, che subito diventano il nostro modo di scoprire una città non mai vista prima, la quale è tuttavia sotto i nostri occhi ogni giorno.
Sicuramente Quattrucci non ebbe alcun bisogno di certe mie paginette, di molti anni fa, rievocative del rogo di Giordano Bruno nel campo dei Fiori; e seppure mi lusingo che la loro lettura l’abbia invogliato a guardare, forse con attenzione nuova, la piazza e la statua del Ferrari (uno dei rari monumenti belli dell’Ottocento) so bene come egli non mi vada in nulla debitore delle inquadrature del Campo, col simulacro nero del grande Nolano, e le lingue bianche dei teli che sciabolano lo spazio con violenza, annidandovisi, al di sotto, il buio del mercato invisibile. (Righe sottili e parallele, di tinta tenue, tagliano in fasce orizzontali i blocchi rossastri delle case: ali di gabbiani, o bave di una luce che non sai se la vicenda del giorno la insegni, o se la provochi lo scatto del fotogramma, rivelatore improvviso della piazza dal nero totale della notte, degli occhi serrati?)
Nel mondo visivo del pittore, dove tutto è unitariamente organico e fossile, il teatro dell’esperienza sensibile, di per sé muto, si fa parola con una costante operazione di germinazioni, di tarsie, di ritagli, di imprestiti fitomorfici e zoomorfici, di memorie secessioniste e di ricognizioni critiche della macchina e della tecnologia. Nella vasta tela dei Travestiti sul lungotevere, una folla congesta recita un trionfo tra carnevalesco e funerario, da cui esula ogni contenuto moralistico e in cui si rapprende seriamente un’idea dell’umanità nella sua apparizione effimera e disperata. Dovunque compaia la figura umana, cogli un sentore di manichino in abiti precari di festa o di ballo; e un interrogativo inquietante sulla assurdità che sembra presiedere al nostro cammino e trascinarlo al termine sconosciuto e ingiustificabile della morte.
Volle incontrarla, la morte, Quattrucci. Non seppe aspettarla. Rifiutò di restarne sorpreso. L’ultimo suo quadro, fatto per regalarmelo, e finito con l’essiccativo perché ormai tutto consumato era per lui il tempo della vita, è ancora un Albero della vita; un tronco scarnificato con spuntoni di ramo grossi tagliati, quasi suppedanei ai calcagni degli uomini crocefissi; il medesimo albero ( “della vita “ : dal pittore così chiamato) che tante volte si vede invadere da un lato il paesaggio, e da reliquia seviziata della natura mutarsi in prodotto ostile dell’artificio, quasi colonna rostrata della nostra epoca massificante. “Questo è l’albero della vita, secco come il mio cuore”: mi scrisse Quattrucci dietro l’ultima sua tela: e l’albero avventa araldicamente teste di serpi – uomini e di cavalli – uccelli tra simboli tetri e oscuri, contro un prato spento e un cielo senz’aria. Stampigliati, un alfa e un omega. E le due date: di nascita, 1932; di morte, 1980.