Testi critici
Ricordo tra noi una comunicazione totale, libera, un po' crudele...
di Ennio Calabria
Dal catalogo della mostra retrospettiva di Carlo Quattrucci
Dicembre 1982 | Gennaio 1983
Edizioni "La Gradiva"
In occasione di una mostra, della prima dopo la sua morte, il ricordo va a Carlo Quattrucci, agli anni in cui ci siamo frequentati meglio e di più. Ho qui sotto gli occhi un mio ritratto che mi dipinse, se leggo bene, nel 1964.
Al tempo non sapevo di questo mio ritratto, l’ho acquistato molti anni dopo.
Quando Carlo lo dipinse dovevamo già esserci persi di vista, questo ritratto mi pare dipinto con affetto, ma con distacco.
Anni prima, sin dagli esordi di Carlo Pittore, ci eravamo frequentati spesso e ricordo tra noi una comunicazione totale, libera, un po’ crudele come avviene quando la consapevolezza elettrizzante d’essere ai primi passi dell’avventura di uomini e di pittori ci sospinge ad una gioiosa complicità impietosa verso la presunta “banalità” dei più. Ma soprattutto quando la comune scelta per una società più umana e giusta rafforza quella complicità e la fa “solidarietà”.
Dopo subentrarono le prime cautele di quando i giochi sono iniziati, di quando le identificazioni troppo facili iniziano a cadere e la nostra “diversità” è sempre meno mascherabile con la “eguaglianza” degli altri, ed i problemi nostri si vanno ergendo in tutta la loro inquietante oscurità.
In questo ritratto che Carlo mi ha fatto, io già non gli appartengo più. Le mie mani si congiungono notturne in un applauso senza suono o come in preghiera, ma comunque in un gesto indecifrabile come indecifrabile è il volto scavato d’ombra tra le squame verdi e fluorescenti di un maglione. Si, credo che in quell’epoca fossimo già sconosciuti l’uno all’altro. In questo scritto il mio ricordo va e resta alle prime impressioni che Carlo ed il suo lavoro mi suscitarono e che forse contengono già l’intuizione della sua conflittualità spenta poi drammaticamente e precocemente.
Conobbi la pittura di Carlo, come un pittura d’impegno nel senso che era tutta al servizio della denuncia a conto di non esistere.
Ricordo di aver provato fastidio per quei grigi sporchi delle strade notturne della città, per l’aggressività approssimativa con cui dipingeva gli acciai delle moto dei giovani.
Ma ricordo anche di essermi sentito un po’ inibito e ridicolmente casto di fronte a quella determinazione che sacrificava per sempre il bello gratificante ad un espressionismo della scelta di campo.
C’era la volontà di raccontare tutto, anche i particolari, ma c’era anche una fretta di concludere. Oppure a pensarci meglio non era fretta ma ironia che vanificava da dentro la drammaticità programmata del gesto o quella vera della commozione.
Ricordo di aver provato quasi rabbia per quelle abbreviazioni troppo facili. Sembrava che Carlo distruggesse all’ultimo momento la sua partecipazione emozionale, che avesse una pudicizia ironica per i propri abbandoni.
Tutto cio si manifestava con un dualismo esplicito e permanente, quasi due personalità, l’una disponibile, confidenziale, l’altra che esprimeva un’incontrollabile tendenza all’irrisione verso gli altri e verso se stesso.
Tutto ciò rendeva Carlo un personaggio scomodo per sé e per gli altri che difficilmente riuscivano a catturarne il consenso.
Ricordo che anche i personaggi più influenti non riuscivano alla fine ad evitare il rientro di un boomerang dissacrante fatto di paradossi crudelmente demolitori. Questo dualismo della personalità psicologica di Carlo, produceva nella sua pittura una conflittualità appunto tra una descrizione partecipata e l’insorgere della sua stessa vanificazione ad opera di un formalismo fatto di brusche abbreviazioni non conseguenziali all’analisi o al tema, ma in un certo senso ad essi antagonista ed estraneo.
Questo svolazzare di ghirigori di una calligrafia rapida, superficiale, erano forse i segnali meno superficiali di una intuizione più moderna perché più contraddittoria dei luoghi e dei temi cari al neorealismo.
Molto più tardi, nelle opere recenti, tale conflittualità si attenua perché si va attenuando uno dei termini del dualismo, il rapporto con la realtà della cronaca, dell’occhio quotidiano.
Così, le sintesi formali da antagoniste del riferimento analitico e realistico, divengono protagoniste assolute e costruiscono una qualità visionaria sconosciuta a Carlo giovane. Credo che in seguito questa visionarietà si vada in Carlo posizionando come un equivalente della vita stessa, capace di contenere rabbia, amore, delusione, speranza, radicalizzandosi a tal punto da inglobare credo la stessa morte come “fatto” della mente, smarrendo la coscienza che essa e un “fatto” estremo, assoluto, drammatico e banale perché eliminando la vita elimina il rapporto dialettico che la congiunge ad essa.
Certo occorre evidenziare delusioni ricorrenti e assommate nei rapporti con l’ambiente sociale e politico, lo sfaldamento progressivo di una omologazione che configurava l’ambiente artistico che gli fu referente, il sogno di una pittura civile vissuto in Messico durante la sua collaborazione con Siqueiros ed il risveglio nel sistema dell’arte italiano a petto di una Roma dove non ci si incontra e soprattutto dove si incontrano distrattamente i colleghi estraniati nella propria solitaria ansiosa ed a volte camaleontica routine. Tutto ciò può aver avuto un peso forse decisivo alla formazione di un tarlo distruttivo in Carlo, tale, da consegnarlo sempre più a quel tormentato solitario visionario e paradossale viaggio attraverso la sua fantasia che è il luogo centrale della sostanza di un artista e forse l’ultimo rifugio quando egli diviene esule.