Marzo 1, 1972In testi critici, dai cataloghi, 1972
Testi critici

Walter Mauro | Mes yeux, mes larges yeux au clartés éternelles

di Walter Mauro
Prefazione alla mostra
Mes yeux, mes larges yeux au clartés éternelles


L’idea di aprire questa cartella di litografie con gli occhi di Maria Teresa fermi allusivamente immobili sui volti mobilissimi e vitali di alcuni fra i più noti personaggi del Greco, deve esser venuta a Carlo Quattrucci dalla forte, incredibile carica di concentrazione dello sguardo di questa donna e scrittrice intrepida, che ha donato alla vita, e allo slancio esistenziale che le alimenta il tessuto, l’intero patrimonio della sua sensibilità. Non è difficile scorgere in quegli occhi la matrice castigliana, quel senso sconvolto di vita e di morte che traspira dalle pietre, dalle strade, dalle rocce della machadiana “tierra immortal”, una sorta di predestinazione avuta e violenta che afferra uomini e cose senza speranza, coinvolgendo i sensi dalle più lontane voragini, fino a provocare vertigini sconfinate di conflitti danteschi. C’è qualcosa di demoniaco, la luce dell’intelligenza, in quegli occhi, così perfettamente ritratti dal pittore, e così intensamente rivolti all’ansia di esistere delle figure del Greco: ma al contempo filtra da quello sguardo la dolce malinconia di una vita errante, in compagnia di un poeta costretto ad errare per le strade del mondo da tempi sciagurati e crudeli, e accanto a questi slanci umani, il senso profondo della razionalità ineluttabile delle cose, del cartesiano individuarsi nel tempo che scorre e nella vita che fluisce, entro i concitati canali della storia.
Questa imperterrita esigenza di vita, una tenace consapevolezza del proprio diritto a stabilire un continuo, perenne rapporto d’amore con gli uomini, la coscienza inviolabile del proprio dovere di donna e di scrittrice: sono queste le componenti che giustificano lo sguardo di Maria Teresa fisso nella densità di altri sguardi, quelli del Greco, in una sorta di cosciente ricambio intellettuale che lega e congiunge, entro un solo crogiuolo di vitalità pulsante, due vite lontane nel tempo, due radici umane sradicate e trapiantate ai confini dell’universo. Non si possono spiegare altrimenti le ragioni di fondo di una scelta, di un comportamento che traspare dalla tela come dalla pagina, sul filo di una densità simbiotica che va oltre lo sguardo, per invadere i campi della Castiglia le concitazioni e i silenzi di Toledo, l’atmosfera asettica e rarefatta, e invece calda e ritmante del Museo del Prado, dove Maria Teresa visse la sua più sconvolgente avventura in compagnia del Greco, quando in piena guerra civile, sotto le bombe franchiste guidate da mano fascista, da generali assassini e traditori, portò in salvo innumerevoli opere d’arte, con l’aiuto degli uomini del Quinto Reggimento, mossi e riscattati da una medesima ansia di vivere e di coesistere. L’episodio è noto, e non il caso di insistervi: ma è sintomatico per comprendere il temperamento intrepido di questa donna, che è tale nel significato più assoluto e totale della parola, nella misura in cui filtra l’umano dai volti del Greco che il suo occhio invincibile sta osservando. In quell’occhio c’è l’orrore della guerra, c’è il disprezzo verso tutto quanto si riconosce nel colore nero della morte: come nei volti del Greco, negli autoritratti abbozzati e mai conclusi, nel monaco incappucciato che sovrasta l’Entierro e lo domina dall’alto di una vitalità triste e dolente, come schiodata da una croce inflessibile, o nella mano ossuta e adunca del Cavaliere, una sorta di lama tagliente, come di occhi di Maria Teresa.
Si è detto del Greco che scelse la città di Toledo in tanti suoi dipinti per la rarefazione aerea, come sospesa, che essa esprime, gigantesco cavalletto sul quale poter vivere e gridare tutta la propria ansia di vita e di amore. E’ probabile che ciò sia vero e il senso di questa scelta spirituale, non certo soltanto tecnica, è ancora in questi occhi cui Quattrucci ha restituito la sua più vera autentica luce, il senso di una globalità che investe e coinvolge tutto un intero, e integro, universo al nodo di una vita invidiabile, tutto sommato, poiché e stata vissuta con una intensità senza risparmio, fra il terrore della disumanità e il calore degli affetti umani, nel denso magma di un ricambio civile al cui fondo esiste e persiste la ragione, il vero, il reale, in tutte le sue più sofferte enunciazioni civili. Lo sbigottimento che si legge, ancora, in questi occhi è quello di Neruda, sul filo della poesia sconvolta dedicata al bombardamento di Madrid, di Siqueiros, dei contadini di Carlo Levi, e quello del Greco, mi si consenta, senza alcuna forzatura, poiché la determinazione dell’uomo è sola e univoca sotto qualunque cielo, di fronte al peso della sopraffazione, e razionalmente si staglia nella limpidezza perenne di un orizzonte senza confini, in cui l’uomo totale domina per il suo stesso esistere, al di là della morte.