Testi critici
Antonello Trombadori | Gli elementari sentimenti di Carlo Quattrucci
di Antonello Trombadori
La Nuova Pesa | Roma | 10 giugno 1964
4 Premio Mazzacurati
Casa della cultura | Teramo
29 giugno | 29 agosto 1973
La grande mostra di Francis Bacon, che si tenne a Torino nel 1962 costituì, senz’altro, un punto di riferimento per molti giovani artisti italiani. Alludo, ovviamente, a quei giovani artisti che muovevano i primi passi o insistevano, non sedotti dalle teorie della morte dell’arte, sulla via d’una pittura e d’una scultura che siano conoscenza e giudizio del mondo. E che, per essere conoscenza e giudizio del mondo, siano fondate non sui temi celebrative della moderna reali bensì sui più ardui e spregiudicati temi critici della sua complessa e contraddittoria esistenza.
Io non credo che l’influenza nettamente marcata in Italia da Francis Bacon sia stata un fatto positivo. A prescindere dalla valutazione che si può e si deve dare della notevole statura intellettuale di Bacon, e per quanto riguarda il suo mondo, al tempo stesso, critico e delirante, e per quanto riguarda la sua singolare integrazione dello spazio tradizionale dentro quello inusitato dell’inconscio storico, rimane il fatto che si tratta, pur sempre, d’un prodotto culturalmente circostanziato entro una particolare esperienza figurativa e ideologica: l’esperienza inglese del dopoguerra, tra Moore e Sutherland. Con Hogarth, la cattedrale di Westminster, le distruzioni di Coventry, e, se si vuole, la convenzione del teatro scespiriano, alle spalle, si può col talento pittorico di Bacon, e anche a dispetto dell’ideologia parassitaria di Bacon, arrivare a emettere un grido di qualche consistenza.
Ma che cosa diventa Bacon, questo pittore che divora a suo vantaggio esclusivo tutti gli insegnamenti del museo e non ne lascia ad altri nemmeno le briciole, per chi, pur essendo, diciamo così ,impegnato sulla “via italiana dell’angoscia”, non muove da analoghe premesse morali e culturali? Diventa, a mio avviso, un puro pretesto per sostituire a determinate convenzioni del passato nuove, ma non meno sterili, convenzioni accademiche. Intendo dire, nella fattispecie, nuove convenzioni formali, prive di autentico contenuto. In altri termini, non è da Bacon che può derivare lo scioglimento di quel groviglio di aggregazioni polimorfiche alle quali molti artisti italiani sembrano avere affidato, da almeno un decennio, le proprie incertezze e le proprie disperazioni.
Non c’è dubbio, tuttavia, che quel groviglio deve essere sciolto e non soltanto perché non v’è espressione, sia pur disperata, laddove non v’è certezza della propria disperazione, ma perché, a lungo andare, la matassa potrebbe imbrogliarsi fino al punto di approdare, per altre vie, alle medesime conclusioni pratiche della inutilità del dipingere per conoscere, insomma, alla “morte dell’arte”.
Se si osservano, ad esempio, i modi diversi seguiti da due importanti personalità della nuova generazione, Sergio Vacchi e Gian Franco Ferroni, per uscire dal groviglio, si vedrà come il primo, libero da ogni scolastica influenza “baconiana”, abbia raggiunto risultati ben più entusiasmanti del secondo, il quale sembra invece aver fatto della influenza “baconiana” la condizione stessa della sua ulteriore ricerca e purificazione formale.
E’ esattamente in questo nodo di problemi che va collocato anche l’impegno ideale e formale di Carlo Quattrucci. E dirò subito che sono stato invogliato a meditare più a fondo sulla sua situazione di artista perché, a prima vista, si può cogliere nelle sue opere uno sforzo sincero per non appagarsi in alcun modo di maschere culturali di comodo. E tanto meno della maschera “baconiana” di cui s’è detto, pur avendo egli più di un conto da regolare con l’influenza esercitata dal maestro inglese.
Quattrucci appartiene a quel gruppo di giovani artisti romani che sono venuti formandosi, con qualche faticoso ritardo rispetto alla loro stessa età anagrafica, negli anni che vanno dal 1956 al 1960. Una formazione difficile, presa nelle alterne e laceranti vicende di fatti politici e di fatti culturali il cui drammatico, eppur eroico epicentro si colloca appunto in quel torno di tempo: diciamo la conferma critica della propria adesione al socialismo come prospettiva rivoluzionaria, a cavallo dei fatti d’Ungheria e del XX Congresso, e la conferma critica della propria adesione al realismo come metodo e come tendenza creative, nel quadro della definitiva caduta di ogni mito celebrativo e di ogni generico adempimento naturalistico o illustrativo.
Mi pare che, in tale contesto Carlo Quattrucci abbia avuto, al tempo stesso, una encomiabile modestia e un occhio abbastanza lungo per comprendere a quali fili occorreva tenersi saldi per evitare le spire d’una nuova, ben più arida e pericolosa retorica delle forme.
Diciamo prima qualcosa del suo occhio lungo. Quattrucci ha visto chiaramente che, né prima né dopo il 1956, il realismo italiano, e, in particolare, la grande personalità di Renato Guttuso, avevano segnato il passo rispetto allo sviluppo della moderna realtà naturale e sociale.
Ha visto cioè, chiaramente, che per un giovane pittore il quale volesse riproporsi tutti e tutti insieme i massimi problemi dell’avanguardia storica non c’erano da fare né sommarie tabulae rasae, né altezzosi salti all’indietro. Ma c’era piuttosto da profittare del ricco patrimonio di trapianto, di approfondimento e di rinnovamento che sulla via di nuove conquiste un pittore come Guttuso aveva, ad esempio, operato e continuava ad operare su quello specifico terreno. Quindi né facile neofuturismo in Quattrucci, né facile neosurrealismo, né facile neocubismo. Piuttosto una scelta: quella della elezione, tra tutti i possibili e necessari ripensamenti neoavanguardistici, della via difficile d’una pittura la quale non s’appaghi unicamente né del gesto né dell’ ideogramma, né del simbolo, né dell’allusività letteraria delle forme, ma insista sul terreno della fattura manuale, del piacere, diciamo pure, di verificare, in perenne colloquio con la realtà e con se stessi, il valore autonomo delle forme e dei colori, la validità d’un linguaggio che solo e pittorico laddove è linguaggio d’immagini, laddove è invenzione di spazio, di tempo, di luogo, di circostanziata ed effettuale consistenza plastica.
La modestia di Quattrucci consiste, invece, nell’aver saputo dimensionare queste scelte critiche alla stregua delle sue emozioni più autentiche, del suo effettivo respiro umano, al di là di ogni pregiudizio e di ogni ricatto della cosiddetta ideologia dell’angoscia. Insomma quanto e come Piero Guccione, suo quasi coetaneo per età e per formazione, Quattrucci non ha avuto timore di scoprire le proprie carte liriche e persino intimiste, e, di conseguenza non ha corso il rischio mortale di quei tanti “baconiani”, o neoavanguardisti programmatici, che faticano, ogni giorno, per far figurare il doppio o il triplo di quella che è la propria provvista di fiato soffiandola dentro strumenti inutilmente amplificatori.
E’ cosi che il referto di Quattrucci sui quartieri – dormitorio della città sviluppatasi in sprezzo ai bisogni dell’uomo e in ossequio alle leggi della speculazione edilizia, o sulle fantasticherie sentimentali che l’uomo non abbandonano neppure quando lo si costringa alla levigata e sterilizzata prigionia del vetro e del cemento armato, o sulla periferia urbana oggettivamente misurata come nuova struttura della realtà epperò non più vagheggiata come abnorme ed evasiva “stagione all’inferno”, e un referto attendibile, comunicativo, persino, talvolta, commovente.
Non ha mai giuocato l’occhio lungo di Quattrucci qualche brutto tiro alla sua sorvegliata modestia? Non e mai accaduto all’intellettuale Quattrucci di soverchiare anziché di aiutare con l’impegno della mente l’ispirazione e la disponibilità del pittore? Affermare questo sarebbe far torto alla porzione di cultura, di costume e diciamo pure di travagliata interrogazione del mondo che Quattrucci condivide con l’epoca nella quale viviamo. Ma se al critico è consentito, oltre l’accertamento dei fatti, avanzare anche qualche personale e privata proposta di collaborazione con l’artista, io non esito ad affermare che tanto più Quattrucci porterà avanti la sua ricerca quanto più, anche nei momenti di maggiore tentazione alla magniloquenza, saprà ascoltare il richiamo di quel suo dolce, struggente, amoroso legame con l’intimo mondo dei sentimenti elementari e della sicura convinzione, che gli è propria, di poter salvare quel mondo non vergognandosi della sua esistenza e rivendicando la sua piena legittimità poetica.