Ottobre 11, 1975In testi critici, dai cataloghi, 1975
Testi critici

Fortunato Bellonzi | Dal catalogo Casa d'Arte "La Gradiva"

di Fortunato Bellonzi
Dal catalogo
Casa d'Arte "La Gradiva" | Firenze
11 | 25 ottobre 1975


In una presentazione di Carlo Quattrucci alla Galleria “La Nuova Pesa” Antonio Del Guercio (e mi dispiace di non essere in grado di precisare la data dello scritto, che pero dovrebbe risalire, se non m’inganna il ricordo della mostra, a sei o sette anni fa) scriveva: “L’andiamo ripetendo da qualche tempo: c’è qualcosa di nuovo, e di particolarmente vitale, nel settore della pittura italiana che ha saputo trarre dalla propria meditazione sui fatti della tendenza realistica negli anni dal 1949 al 1954, nuove ragioni, più fondate, per asserire la validità d’una ricerca che abbia un preciso senso umano; una ricerca che non si pieghi a quell’oscillazione tra evasioni compiaciute e disperazioni inarticolate nella quale sembra, tutto sommato, consistere la poco varia vicenda dell’arte che sta sulla cresta dell’onda ufficiale. E ora crediamo di poterlo ripetere più forte, perché siamo in presenza di fatti nuovi, di nomi nuovi che non possono più non essere criticamente omologati. Noi, per quanto ci riguarda, riteniamo di poter criticamente omologare un pittore come Quattrucci.”
E di Quattrucci lo studioso indicava queste garanzie di serietà: la materia pittorica, intensa e suggestiva ma esente da compiacimenti sensuali; il disegno elegante, tuttavia capace di mantenere “entro le sue linee pure un sentimento bruciante”; una forza emotiva di racconto, chiara pur nelle allusioni, ma non cronachistica; che era quanto sottolineare, del nostro pittore, la partecipazione schietta, coraggiosa alla realtà e ai suoi problemi senza retorica, senza pedanterie didascaliche o, peggio, moralistiche, attuata con i mezzi legittimi della pittura, quali linee, superfici, colori (non escluso l’uso della fotografia, entrata ormai da più di un secolo a far parte degli strumenti dell’arte) e sostenuta dai moti autentici dell’animo, quanti vanno dalla tenerezza alla rabbia, se mai volessimo indicarne una graduatoria, articolando la vita, dandole sangue, sapore e verità.
Anch’io sono stato tra i primi, come credo, a stimare Carlo Quattrucci, a distinguerlo subito nella cerchia dei giovani che rinnovavano da noi i motivi e – perchè no? – i messaggi dell’arte figurativa, nei modi della contestazione, che è sempre stata atteggiamento peculiare della giovinezza, passo obbligato della presa di possesso della personalità, e spesso, purtroppo, unica stagione geniale (o genialoide) della storia individuale; ma una contestazione costruttiva, quantunque espressa frequentemente con ironia feroce, con volontà di sovvertimento generale e profondo, sollecitata da una posizione critica, tanto intransigente quanto necessaria e salutare, nei confronti delle troppe cose di questo mondo che non ci piacciono per la semplice ragione che a nessuno, che sia dotato di buoni sensi, di affetti onesti, di reali propositi umani, posson piacere. E lo invitai, Quattrucci, nel 64, a Parigi, alla quarta Biennale internazionale, a testimoniarvi – insieme con Guccione, Mattia, Pompa, Tommasi Ferroni, i due Sartoris, Alberto e Ugo, Angelo Canevari e Iandolo – la seria preoccupazione dei giovani per la crisi dei valori, l’aspirazione a rifarsi alle fonti spirituali della vita che sole possono restituire all’uomo e al suo lavoro un significato metafisico. Fu un tentativo irritante, che venne generalmente interpretato come una nostalgia inoperosa del passato, una proposta antistorica di miti e di tradizioni sepolte, uno sforzo risibile di contenuti accademici privi di ogni verace soffio di speranza. Malraux, che voleva soffermarsi in quella “curiosa” sezione italiana, ne fu portato via in gran fretta, prima che potesse compromettersi anche soltanto con una fuggevole dimostrazione d’interesse.
Ma il quadro di Quattrucci, “Il ritorno del Figliuol Prodigo”(due metri per uno e più), con la costituzione delle due larve umane contro la grata metallica dell’ascensore di un casone popolare, era una delle prove piu convincenti che l’appello a un tema di storia poteva trovare, come difatti aveva trovato, qualche risposta soddisfacente.
Certo – per dirla ancora con Del Guercio – l’elezione di determinati contenuti, che comportano lo schieramento allarmato della pittura di Quattrucci sul terreno scottante della realtà, può parere “una garanzia estranea ai fatti espressivi”. Nondimeno una garanzia, neppure (a badare bene addentro alle cose) tanto estranea quanto a prima vista vorrebbe farcela credere una tenace abitudine al giudizio formalistico. Non già che l’impegno non sia assediato dall’errore e non tenda, si sa bene, i suoi tranelli. Ma la cultura, malgrado tutto, o è impegnata, almeno fino a un certo segno, o non è cultura; e purchè si guardi dal farsi strumento cieco del potere, ossia della violenza, sempre ha da compiere le proprie scelte, né si dirige all’universale se non attraverso il particolare, ne ha forza di nutrire di sé gli uomini (ben oltre le circostanze storiche nelle quali espresse i suoi frutti) se non a patto d’avere militato in un campo preciso, difendendolo a oltranza e da esso recando l’offensiva critica nei campi circostanti e avversi dell’immobilismo e dell’opportunismo.
Vedete, in questi dipinti recenti, come il pittore intenda metterci in guardia contro gli eccessi della tecnocrazia; come tenti, nell’immagine drammatica di un paesaggio, di sottrarre certi lembi di natura alla loro presentita rovina; come avventi fuori dal campo bianco della tela un cavallo folle, in fuga da quella morte delle cose naturali che Quattrucci chiama l’Arcadia, probabilmente nel ricordo delle false pastorelle di un intellettualismo aristocraticamente evasivo; come in modi sottilmente accorati – e valendosi proprio degli esempi della nostra civiltà generatrice infaticabile di effimere immagini pubblicitarie – commenti e compianga la fine degli animali: gli orsi già consegnati alla perizia dell’imbalsamatore, alla freddezza della vetrina del museo di storia naturale (con la infedelissima pretesa di oggettivarvi scrupolosamente anche l’ambiente dove la bestia un tempo viveva), la mucca lattifera nutrita di latte in pacchetti e produttrice essa stessa di altri identici pacchetti di latte.
Né sfuggiranno all’osservatore le doti dell’inventiva nel disegno (le supreme eleganze lineari, accoglienti talora stilemi squisiti dell’Art Nouveau) e l’accorta padronanza della materia pittorica, quando mantenuta volutamente dimessa perchè l’impressione fondamentale del dipinto rimanga quella di un’opera grafica con valori perentori di bianco e di nero, quando invece sontuosamente ispessita, o impreziosita da mezze tinte delicate, piatte, sfumate, con effetti di gouache e di litografia; infine la ricchezza delle flessioni psicologiche dell’autore che dall’interno delle proprie immagini senti ammiccare onnipresente verso di te, ora con lirismo aperto e struggente, ora con divertita ironia, ora con indiretti, pensosi richiami alle responsabilità della nostra esistenza comune, in una pluralità di occasioni diversissime, rapidamente rapprese come in una serie d’istantanee (grazie anche ai risultati prestigiosi di una tecnica iper-realistica) e tutte infine ricondotte al comune denominatore di una fantasia inquieta, febbricitante, che estrae l’oro da ogni materiale grezzo, ma non è mai arbitraria né solitaria.