Febbraio 21, 1980In Roma, Messico, rassegna stampa, 1980
Rassegna stampa

Franco Simongini | Per Carlo Quattrucci Campo de' Fiori è un teatro all'aperto

di Franco Simongini
Corriere della Sera | 21 febbraio 1980


Fino a qualche tempo fa era possibile vedere Quattrucci per le vie di Roma su di un calessino tirato da un bel cavallino di razza, un pony, avvenimento non inconsueto nella capitale d’Italia dove arrivano e soggiornano i tipi più simpatici e stravaganti. Quattrucci è nato a Roma nel 1932, ma ha tutta l’aria (o è il suo desiderio di mascheramento?) del messicano e del meticcio (come dice lui), con i baffi spioventi sulla bocca, barba arricciolata, occhi neri e un cappellone in testa, e qualche volta, sui blue jeans, un cinturone borchiato da fachiro del circo equestre, e la chitarra del gitano a tracolla.
Dietro una sfrontata sicurezza, Quattrucci nasconde una timidezza ostinata e vuol apparire quello che non è, ed anche nella sua pittura, dietro le colorate sceneggiate spagnoleggianti, di toreri e danzatrici di flamenco, occorre andare a trovare il filo più segreto del suo amore-odio per Roma, per le zone storiche, per quegli scorci di Campo de’ Fiori e della statua di Giordano Bruno, la folla rumorosa e variopinta e clandestina che affolla la piazza del mercato di giorno e di notte (e a Campo de’ Fiori sono dedicati la maggior parte dei quadri che saranno esposti tra qualche giorno alla galleria Gradiva con una presentazione di Fortunato Bellonzi).
“Ho fatto i mestieri più diversi e strampalati e abusivi – mi confessa Quattrucci nel suo studio di Via dei Riari, sotto il Gianicolo – ed ho girato il mondo nei posti più impensati, dall’America de Sud alla Siberia, ma i luoghi che conosco meglio e dove ho vissuto per certi periodi sono il Messico e la Russia, precisamente Mosca. Ma la mia prima vera emigrazione è avvenuta su invito del critico Antonello Trombadori, di andare per due anni in Messico. Una colletta tra colleghi mi procura il biglietto di sola andata per Mexico city, scalo Parigi, New York, e così approdai nelle braccia di David Alfaro Siqueiros. Perché Siqueiros? Perché il famoso pittore messicano chiese a Guttuso il nome di un giovane artista italiano disposto a collaborare come apprendista, insieme a colleghi di paesi di ogni parte del mondo, alla realizzazione di una faraonica pittura murale che fu il suo canto del cigno a Cuernavaca. Guttuso si rivolse a Trombadori che mi fece la proposta.
“Arrivai in Messico senza una lira, senza conoscere una parola di spagnolo, avevo solo un pacchetto di sigarette Gauloises e una lettera di presentazione per Siqueiros. Credo che quel periodo sia stato il più bello della mia vita, in quella terra tropicale assurda e logica nel medesimo tempo, ho avuto la fortuna di conoscere Pablo Neruda, Bruno Traven (l’autore del romanzo “Il tesoro della Sierra Madre”), Lopez Mateos e naturalmente Siqueiros che mi prese subito in grande simpatia; ho conosciuto così le terre Maya, le grandi piramidi del Messico e del Guatemala, e questa esperienza è servita ad insegnarmi che non posso e non potrò mai lavorare in una equipe. Per me dipingere e modellare creta è un lavoro solitario, sono tornato dal Messico con una sbornia di metri e metri quadrati di pittura col desiderio di lavorare solo davanti ad una tela sul cavalletto.
“Per venire ai miei ultimi quadri – conclude Quattrucci questa sua breve panoramica di vita in realtà molto più complessa e avventurosa – la Roma che io tento di dipingere è una città barocca, corrotta, impestata, felice e disgraziata insieme, cattolica e blasfema, che nonostante tutto continua a vivere anche con un pizzico di allegria. Questi ultimi quadri vogliono essere l’omaggio di un intellettuale che detesta il barocco ad una città barocca, il tutto filtrato dagli occhiali di una formazione gotica, nordica, un po’ per le mie origini perché mia madre era una nobile tedesca di origine polacca. Campo de’ Fiori per me è il centro del mondo, con quella statua incappucciata di Giordano Bruno, ospite incomodo, che s’eleva sopra i banchi del mercato, quelle tende bianche sospese come tanti spettri, quegli odori che salgono come scie fumigose al di sopra del fondale delle case circostanti; ecco la mia ambizione restituire pittoricamente il clima, il sapore, l’atmosfera di incubo e di poesia, di dramma e di idillio, che nasce e muore ogni giorno in un teatro vivo all’aperto come Campo de’ Fiori a Roma…”