Testi critici
Carlo, amico, com'è che il filo è finito?
di Dario Micacchi
Dal catalogo della mostra retrospettiva di Carlo Quattrucci
Dicembre 1982 | Gennaio 1983
Rimescolando le parole d’una frase lucente di Antonio Machado, poeta amatissimo da Carlo assieme a Garcia Lorca e all’amico Rafael Alberti, vorrei riunire ricordi e osservazioni sotto il titolo” Appunti lirici e critici per una geografia emotiva del pittore realista visionario Carlo Quattrucci”. Carlo l’ho conosciuto nel 1959; preparavo per la galleria “La Nuova Pesa’, in via Frattina, la mostra “12 pittori figurativi”. Era un uomo-ragazzo dolce ma facile a infiammarsi, fragile ma che nascondeva un che di popolano misto di passione e di furore. Non portava occhiali, anche se ne aveva bisogno, e il suo volto appariva più aguzzo, un po’ delirante per quei fantasmi dell’immaginazione che gli premevano dentro. Gli piaceva dipingere la notte e i ragazzi di borgata con le lambrette a parlottare sotto le lampade. Era molto vicino, nei motivi notturni, a quello che dipingeva Ennio Calabria, un altro giovane amico dotatissimo, pure nella mostra. Carlo mi affascinò per quella sua grazia fragile che celava il furore e per un altro carattere tutto suo e che lo avvicinava a un altro pittore di grande originalità immaginativa e popolana, Valeriano Ciai: che Carlo facesse il pittore gli si vedeva dalle mani sempre un po’ macchiate e martoriate dai colori e dai solventi. Era un uomo-ragazzo di sensi e sentimenti generosi, sempre pronto a pigliar fuoco: era di quella generazione che il tragico XX Congresso del PCUS aveva liberato. Era molto romano ma aveva sensi e idee sempre tesi verso quei luoghi del pianeta dove c’era una lotta per la libertà e per il socialismo. E il cavallo tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, per un pittore, era proprio una straordinaria bestia da cavalcare. Incontrai Carlo, sempre più di frequente, prima al Lungotevere degli Artigiani, in vista del ponte di ferro e del gazometro che Renzo Vespignani aveva trasformato in una mitografia realista prepasoliniana di Roma; poi, sempre più, in quel giro magico di strade che sta tra via Garibaldi, la Lungara e via dei Riari dove aveva preso lo studio: era stata la via di Antonio Donghi, di Vespignani, di Muccini, della Urbinati, di Sughi quando veniva a Roma da Cesena.
Nella zona ora ci lavorano Attardi, Tornabuoni, Tommasi Ferroni, Ciai, Gaetaniello, Mattia. Dalle finestre di via Garibaldi volano su Roma i versi di Rafael Alberti che ora raggiungono la Spagna come gli uccelli migratori ora aspettano il tramonto per attaccarsi tenacemente ai rami degli alberi di Roma. Lo studio di Carlo stava, e sta, in fondo ai Riari arrampicato sopra un garage, proprio sotto il Gianicolo in vista dell’Orto Botanico. In questo studio, un giorno del 1980, decise che non valeva più la pena di vivere. Con la notte, le ombre, le tenebre vere e proprie aveva sempre avuto confidenza, anzi le aveva sempre sfidate, introducendo nella struttura dell’ombra una o più figure umane, uno o piu oggetti, e fino al racconto gioioso e ironico, sin dal lontano 1959 quando lo conobbi. Anzi, se dovessi dire che tipo di realista visionario fu, oggi direi che ebbe sublime coscienza dell’ombra e che la sua lotta di pittore-uomo fu quella di tenerci accesa una luce, magari minima, e di fare trasparenza. Quel giorno orrido del 1980 era stato preceduto da molti giorni penosi che Carlo si era sgranati, ora dopo ora, in solitudine. Si era rotto un difficile equilibrio tra lui e il mondo, tra lui e le speranze socialiste, tra lui e i suoi amici artisti e critici: l’ombra per tanti anni tenuta a bada con la tensione lirica e sociale tanto energica della pittura e anche della scultura, gli era entrata dentro e se l’era mangiato. Con angoscia, mentre scrivo questi appunti, ricordo di averlo incontrato, pochi giorni avanti il suicidio, al baretto che sta tra la Lungara e via dei Riari: portava un berretto di cuoio che donava molto alla sua bella testa barbuta; gli tremavano molto le mani, ma sorrideva, era loquace e beffardo: non capii niente di ciò che aveva nel cuore e nella mente. Ora a rivedere i dipinti degli anni settanta scelti per questa mostra ci si rende conto che la parte che tocca all’ombra è grande e potente. Ma sarebbe assai sciocco vederli ed interpretarli come progressione magari di “fuoco fatuo” sessantottesco verso quella sua scelta finale. E’ l’opposto: sono immagini di una bella energia immaginativa e pittorica e se le ombre crescono e si addensano – si pensi ai tanti dipinti di Campo de’ Fiori con il melanconico Giordano Bruno tra la gente e le bandiere rosse; agli altri dipinti di una grande magia con i travestiti del Carnevale sul Tevere; e a quella ossessione simbolica del grande albero sempre più spoglio e secco da quando l’aveva scoperto in Messico nel soggiorno per dipingere con David Alfaro Siqueiros allo sterminato murale polimaterico di pittura e scultura La Marcia dell’umanita’ – dico, se le ombre crescono e si addensano nei quadri è perchè Carlo Quattrucci le sentiva e le vedeva crescere e addensarsi nella vita di tutti: stava calando una pesantissima nebbia nella quale tante lotte e speranze e utopie diventavano fantasmatiche fino a non vedersi piu. Come pittore lo ha detto forte e chiaro e con una pittura nuova e bellissima negli anni settanta: non credo che lo abbiamo capito e per questo riproponiamo a chi non li ha visti e agli smemorati i dipinti e le sculture degli anni settanta, in attesa che presto si possa ricostruire tutto il suo percorso dal 1958 al 1980. Qui, prima di dire della pienezza di coscienza e di pittura nel lavoro degli anni settanta, voglio per cenni essenziali ricordare quale fu questo percorso, con certe date, con certe idee, con certi viaggi e incontri fondamentali, con certe immagini dipinte di relazione con l’esistenza e la vita sociale che non fu facile costruire negli anni del più gestuale e lamentoso informale. Al discorso temporale-esistenziale vorrei premettere una considerazione: Voi che, oggi, guardate i dipinti e le sculture di Carlo Quattrucci degli anni settanta non potete avere idea della libertà fino allo sbaraglio, quasi sempre accompagnata dalla povertà e dalla pochezza dei mezzi, con la quale si parlava, si progettava, si faceva pittura alla fine degli anni cinquanta, e con la convinzione che il lavoro poetico del pittore sull’immagine potesse entrare in sincronia col più generale, consapevole lavoro sociale di trasformazione e di rivoluzione italiana. Dunque, la prima uscita di Carlo e nel 1959 con la mostra dei “12 pittori figurativi” alla galleria “La Nuova Pesa” di via Frattina. Ero io a presentare questi giovani, a ricordare la ragione antifascista ma anche la smarrita e ansiosa condizione di solitudine. Scrivevo: “I pittori di questa mostra dalla coscienza della condizione individuale hanno imparato, anche a proprie spese, la sterilità culturale e poetica delle soluzioni miracolistiche; e ciascuno, giorno dopo giorno, s’affatica per trovare il punto giusto di congiunzione tra l’arco del proprio destino di pittore e l’arco a più lunga gittata del destino del nostro tempo”. Carlo aveva un dipinto spavaldo con dei giovani popolani lambrettisti ma gia con un piccolo tarlo melanconico che si mangiava la gioventù e la notte grigio piombo e blu.
Qual era, nel 1959, la novità di Carlo Quattrucci nella novità di quel gruppo di giovani? Era la vita della città, la vita di Roma vista dal “basso” e dal ” volgare ” popolano con una maniera pittorica spiralica e “flamboyante” che voleva risucchiare l’esistenza nella società e nella storia. Dunque una pittura della realtà e della città non più politica e programmatica ma una crescita poetica, visionaria e prefiguratrice, dal realismo socialista o neorealismo che dir si voglia. Uno sguardo assai mobile tra le posizioni di un Vespignani e quelle acerbe di un Calabria. Tra il 1961 e il 1962 una bruciante maturazione. Nel 1961, si presenta alla galleria Stagni di Roma il gruppo Libertà – Realtà con una dichiarazione di intenti poetici e sociali e una mostra firmata da Marcello Confetti, Paolo Ganna, Piero Guccione, Gino Guida, Carlo Quattrucci, Pino Reggiani, Aldo Turchiaro e Pasquale Verrusio. La polemica è contro “l’arte per l’arte” e contro l’Informale; contro la condanna irrimediabile dell’uomo che veniva da posizioni pessimistiche e contro l’ottimismo. Affermavano: “…E’ nella restituzione della verità (una verità non scontata a priori ma da scoprire giorno per giorno) partendo da una posizione spregiudicata e progressiva, lontana da qualsiasi cristallizzazione letteraria e nella volontà di esprimerla con mezzi adatti a ricostruire una moderna iconografia, che noi sentiamo di trovare il modo più profondo per partecipare attivamente all’evoluzione della cultura e della società’”. In sostanza, in più luoghi, nei centri e nella provincia, la pittura della realtà stava cambiando pelle. Credo che Carlo Quattrucci abbia trovato un grosso punto d’appoggio e di confronto nelle idee e nelle opere del gruppo “Il pro e il contro ” costituitosi presso la galleria “La Nuova Pesa” di via del Vantaggio, a Roma, e poi trasferitosi, per conflitti sulle idee e sul programma, in un’altra galleria “Il fante di spade” in via Margutta che aveva piena libertà d’azione pur sostenuta dal mecenatismo del modenese Mario Roncaglia. Oggi, si cita spesso il gruppo “Il pro e il contro” per la sua potente azione di rinnovamento figurativo e realistico, ma se ne citano malamente i nomi dei fondatori. Li ricordiamo una volta per tutte: furono l’architetto Carlo Aymonino, i pittori Ugo Attardi, Ennio Calabria, Fernando Farulli, Alberto Gianquinto, Piero Guccione, Renzo Vespignani e i critici d’arte Antonio Del Guercio, Dario Micacchi e Duilio Morosini. L’attrazione e lo stimolo di questo gruppo fu enorme. Si unirono per iniziative e mostre, senza entrare nel gruppo, da Milano, Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni e Gianfranco Ferroni: da Roma, Renato Guttuso. L’esordio avvenne alla “Nuova Pesa” di via del Vantaggio con una mostra, accompagnata da un’edizione di acqueforti, che fece epoca sul tema “La violenza ancora”.
La prima personale di Carlo si tenne nel 1962, sotto il patrocinio del gruppo “Il pro e il contro”, assieme a una personale di Aldo Turchiaro. Nel presentarlo Antonio Del Guercio sottolineava che la sua ricerca, in sicura crescita, era condotta “…con rigorosa tenacia, attraverso un processo consapevole di depurazione e di riduzione all’essenziale “. Erano immagini di violenza e di tortura, un po’ nel “clima”- erano i giorni dei paras francesi e delle torture in Algeria – di denuncia e di smascheramento della violenza che andavano facendo gli artisti de “Il pro e il contro”; ma Del Guercio vedeva bene puntando lo sguardo sulla depurazione e sulla riduzione all’essenziale. Tra i miei ricordi c’e una macchina da scrivere assai brutale e crudele dentro un ambiente bruciato dalla luce di una lampada e con un corpo umano flottante, trascinato via.
La violenza come comportamento statale e imperialista; la violenza come pratica del potere: ecco, nei primi anni sessanta, uno sguardo alle cose del mondo e uno sguardo al lavoro di un piccolo gruppo di amici pittori, Carlo comincia a disseppellire le sorgenti più profonde della sua immaginazione e, attraverso la violenza e quel che della violenza gli portano i mezzi di comunicazione di massa, comincia a sognare altri luoghi del mondo e dell’esperienza pittorica: e spinto da una tensione fortissima per l’altro, per il diverso, per il lontano. Cerca una verifica sul tempo lungo e sulla dimensione sterminata. Non gli basta più essere pittore romano o milanese o fiorentino. La mostra del 1964, alla galleria “La Nuova Pesa” chiude un periodo fervido e fertile di maturazione. Lo presenta Antonello Trombadori che fa una polemica aspra e sottile con l’angoscia degli artisti e dei critici de “Il pro e il contro”. Carlo, scrive Trombadori “… fa uno sforzo sincero per non appagarsi in alcun modo di maschere culturali di comodo. E tanto meno della maschera ” baconiana ” di cui s’e detto, pur avendo egli più di un conto da regolare con l’influenza esercitata dal maestro inglese.”
Trombadori, che riconduce la ricerca di Carlo a Guttuso, vede in lui la conferma critica dell’adesione al socialismo a cavallo dei fatti d’Ungheria e del XX Congresso e la conferma anche dell’adesione al realismo come metodo e come tendenza di ricerca. In mostra erano dipinti ancora come immagini di violenza dove ardeva una fiamma umana e immagini di un uomo prigioniero in gabbie di cemento in una Roma in “notturno” irriconoscibile e fatta viva, sembrava, per il crescere tenace d’una pianta grassa “alla maniera di Sutherland”.
Con i sei mesi del soggiorno in Messico, nel 1966, al seguito del geniale David Alfaro Siqueiros, in compagnia di tanti altri giovani venuti da tutto il mondo a lavorare, sotto la guida di Mario Orozco Rivera, in Cuernavaca, ai grandi pannelli polimaterici a rilievo, per il murale de La marcia dell’umanità; Carlo rinnovò il suo occhio, sveltì la sua mano, imparò ad essere analitico e sintetico allo stesso tempo: la sua maniera spiralica e “barocca ” ne fu esaltata; il disegno potenziato nelle sue curve di qualità simbolica; e, credo, dalla sterminata natura messicana cavo un senso spaziale infinito e cosmico che prima non possedeva. Dal punto di vista della cultura e della tecnologia che stanno alla base di ogni progetto di pittura davvero moderna fece, credo, una segreta riflessione su una strada incandescente che portava dall’avanguardia futurista boccioniana al muralismo di Siqueiros e di Orozco. Tornò, e furono mesi di racconti. Alla galleria “Rosta due” di Bari, nel 1967, presentai una ricca serie di paesaggi “messicani” che salutai come conquista d’una dimensione cosmica oltre il surrealismo di Ernst. In questa serie – e cosa pittoricamente di grande rilievo – compare per la prima volta il motivo del grande albero che tornerà sempre e fin nell’ultimo dipinto quale immagine d’una vita e d’una immaginazione che si sono seccate. Nel 1969 realizza la cartella grafica “Espana 1936 – 19…” che è un omaggio agli amati Alberti, Garcia Lorca, Antonio Machado (con testi di de Micheli, Marsan, Mercuri) e contiene anche una poesia di Rafael Alberti, “Non sono passati gli anni”. Questa cartella è un piccolo capolavoro di lirismo e di tensione politica antifascista costruiti a forza di segno esaltando la dinamica delle curve e delle spirali e i prediletti colori del verde, dell’azzurro e del nero.
Nel 1969 presenta, al Centro Attivita Visive del Palazzo dei Diamanti a Ferrara, un ciclo dedicato al Black Power: vi figuravano ritratti di Ralph Brown, di Stokeley Carmichael, di Malcom X, di Martin Luther King, di Cassius Clay: ritratti spinti fino all’iperbole della maschera di un volto. Scrivevo:… E vediamo dipinte lingue di fuoco e notti di luna, e fiori di giungla e segnali della città, uomini massacrati e bandiere americane “. Nel 1970, prende parte alla mostra “Arte Contro “costruita da Mario de Micheli con opere di artisti tra il 1945 e il 1970. In questa mostra risulta chiaramente che Carlo non e un pittore della “nuova figurazione”, uno che recupera dopo l’Informale e mentre hanno egemonia di mercato il Pop Art e l’Arte Povera: è un pittore della realtà di lontane radici ma con lo sguardo prefiguratore e che si fa decifrare nel tempo lungo.
Nel 1971, con un saluto in catalogo di Siqueiros, espone alla galleria “La Margherita” di Roma: passato al setaccio di una straordinaria esperienza internazionale gli sta tornando dentro, attivo e attivante, il mondo romano e una Roma come il luogo del disfacimento. Scrive nel catalogo: ” … Il mio incubo è di vedere affacciandomi una mattina alla finestra, nascosti tra le foglie di un noce americano, giallo come gli occhi di una civetta, i fari di un’automobile che ha deciso d’insediarsi nel mio studio, trasformandolo nel suo garage”. Non so se l’abbia attivato, perchè l’ha sempre posseduto, a Cuernavaca il senso ironico e beffardo dello spettacolo di se stesso e della pittura. Ma, su dei viaggi a Mosca e in Spagna, Carlo immagina due serie strepitose di dipinti: nella serie moscovita riscoprendo la magia gioiosa e aurorale dell’avanguardia russa e nella serie spagnola dando fondo a tutte le invenzioni possibili che dalla Spagna si possono spillare: vive memorie pittoriche goyesche, danze e comportamenti popolari, stoffe e abiti, il corpo e le espressioni femminili (e qui ha una grande parte di stimolo creativo la donna compagna che gli è vicina in questi anni), la teatralità suprema della corrida (ma torna cupissima la violenza). Se nella serie moscovita è buona occasione per il ricercare pittorico quella offerta da una qualsiasi lettera in alfabeto cirillico che diventa nota musicale, di segno e di colore, per costruire la musicalità tanto positiva dell’immagine intera; nella serie spagnola è il trionfo della linea curva e della spirale e della forma in espansione (si riaffaccia sicuramente nel bronzo della danzatrice spagnola il Boccioni delle “Forme uniche nella continuita nello spazio”. Per la mostra a “La Gradiva” del 1977-1978, Fortunato Bellonzi individuò alcuni cardini sui quali girava l’immaginazione di Carlo: quando parla del disegno come sostegno primario; e della capacità di un commento, alle immagini di vita spagnola “…sottile, ironico, grottesco, pietoso”; quando richiama l’Art Nouveau e la grafica giapponese e, soprattutto, accenna, in modo folgorante e imprevisto, a Lorenzo Viani pittore della “commedia assurda della gente senza destino”. Ripete Bellonzi il già detto per Viani: “… che tutto è responsabilmente impegnativo per un artista vero, il bello e il brutto, il tragico e il risibile, quando dentro ciascun “motivo” si commuove ogni volta una porzione vasta di umanità, si ribella un principio, trova forma un sentimento sociale” In una monografia del 1980, pubblicata da Carte Segrete a cura di Massimo Riposati, Fortunato Bellonzi è di occhio ancor piu analitico ed esatto: dice di una Roma d’impronta nordica, di tagli severi, di luci fredde, abbaglianti e di scritture nere. Fa il nome – quanto giusto! – di Edvard Munch e scrive : “… Cogli, dovunque compaia la figura umana, un sentore di manichino, sia pure in abiti di festa o di ballo; è un interrogativo inquietante, come penso di dover credere, sull’assurdità che sembra presiedere al nostro cammino e trascinarlo senza giustificazione fino al termine buio della morte”. E’ proprio cosi, è in quel sublime velluto nero della notte di Roma dove baluginano come lame i colori dei travestiti, delle maschere laiche e cattoliche, è nella percezione orrida ma sensuale e coloratissima d’una caduta generale, è in questa immagine delirante e fluente come l’acqua del Tevere, che la grande ombra s’e divorata la vita di Carlo Quattrucci. Scriveva lapidario Antonio Machado: Conversazione di gitani:
– Per girare intorno,
prendi la strada di mezzo:
non arriverai mai.
E ancora con terribile semplicità popolare:
“Ho creduto spento il mio focolare,
e ho attizzato la cenere…
Mi sono bruciato la mano “. E, forse, a Carlo sarebbe piaciuta immensamente questa strofa musicale di Machado, ancora:
” – Ma l’arte?
– E’ puro gioco,
che è come la pura vita,
che è come il puro fuoco.
Vedrete la brace accesa.”
Di brace accesa Carlo Quattrucci ne ha lasciata parecchia: c’e di che riaccendere più fuochi o, se preferite, di che inventare più ruoli che Carlo, del resto aveva previsto dipingendo quella serie così teatrale e malinconica di autoritratti dove si cala sempre nei panni di nuovi grandi personaggi con naturalezza estrema (come dire che il tempo lo consente), e con ironia amara e beffarda. Della sua “brace accesa”, quella che raccoglierei e porterei via con me, per riscaldarmi il cuore e i pensieri, per sentire nelle visioni e nelle prefigurazioni il profumo intenso dell’amicizia quella speciale che ti sa dare un compagno che sia o no pittore, per sentire anche in giorni tremendi che la pittura è viva e umana e ha speranza di futuro, sta in alcune immagini moscovite così felicemente costruite su un’avanguardia costruttivista sovietica che Carlo sentiva vivere nelle strade, nella gente, nelle scritte, nelle incredibili matriosche ballerine. Sta in certe figurine erotiche di donne spagnole così fragili nella loro musicalità e nella parte che hanno nella vita come se fossero discese provvisoriamente giù dalla coperta del giocognolo che le getta e rigetta in alto burattinescamente come l’ha dipinto Goya, e che trovano la loro gloria erotica e laica (che viene da “Guernica” di Picasso) nel grande quadro della “Fiesta española” del 1977 dove c’è, però, quel maledetto albero a minacciare sempre. Sta nei ricordati dipinti del carnevale sul Lungotevere dove l’albero si fa più importante e decisivo. Sta in certi quadri sconsolati con Giordano Bruno carezzato dai voli degli uccelli che guarda la gente è la solitudine immensa e notturna del Campo de’ Fiori (a questa immagine di piazza italiana Giorgio de Chirico non era riuscito ad arrivare). Sta, infine, in tutte quelle immagini di vario formato dove c’e, negli anni, quel maledetto albero dei giorni messicani (scriveva Carlo: “è leggenda che l’esercito di Cortez vi trovasse nascondiglio”) fino ai giorni della morte, sempre più secco, rostrato, aspro che anche gli uccelli abbandonano. Con questo maledetto albero Carlo ha avuto un dialogo paziente e doloroso. Diceva Antonio Machado di un uomo poeta:
“Per dare lavoro al vento,
cuciva a filo doppio
le foglie secche dell’albero.
Carlo, amico, com’è che il filo e finito?
Roma, 24 novembre 1982