Gennaio 8, 1983In testi critici, rassegna stampa, 1983
Rassegna stampa

Fortunato Bellonzi | Il cammino cieco di Quattrucci

di Fortunato Bellonzi
Il Tempo | 8 gennaio 1983


Lo scavo della realtà – figura umana o bestiale, paesaggio od oggetto – è testimoniato dall’intera opera di Carlo Quattrucci pittore, grafico, scultore, e con crescente vigore d’impegno e con più alti risultati dei dieci ultimi anni di lavoro e di vita: quanti pressappoco ne rappresenta (nei limiti ovviamente obbligati) l’antologia che si inaugura oggi alla “Gradiva” a cura di Antonio Russo e di Dario Micacchi, che nel saggio della monografia pubblicata in occasione della mostra ricostruisce la storia libera e tragica dell’artista illuminandone l’azione generosa, e l’amarezza delle delusioni più forte della volontà di superarle, e soprattutto la parte originale, di protagonista eretico, sostenuta nelle vicende recenti dell’arte italiana. Si attua, lo scavo della realtà, nel ripensamento memoriale del veduto e del vissuto: sicché non l’impressione emotiva dell’incontro si manifesta, ma la cronaca dei confronti provocati e ripetuti tra l’immagine mentale, che si fa sempre più consapevole della propria certezza, e l’immagine fisica che quanto è più accanitamente sceverata tanto più corrispondente al fantasma.
La realtà si dilata nei vasti spazi silenziosi per prospettive che traccia l’empito inventivo, violente e policrome, ma senza luce.
Isole di colore ora circoscritte, di foggia ovoidale come squame, ora distese in grandi ritagli appesi al bianco abbacinante o al nero profondo; e segni che attraversano sinuosi i monti e le case con bave sottili di corrosione (non di aria) o li tagliano secchi nei loro strati di storia geologica e umana, o li aggrediscono con le falcature metalliche dei rami di un mondo vegetale che non ha riscontro nella nostra esperienza (proiettano nello spazio i mostri che nutrono dentro) scrivono una realtà pietrificata che investe i cieli duri con la presenza di un sole che illumina e non riscalda, o con i nastri e i globi delle nuvole pese.
Anche la Roma di Quattrucci, i lungotevere, il Campo de’ Fiori, villa Lante – è una città nordica, ferrigna e minacciosa, non vista mai prima.
La fattura articolata e composita dell’immagine, come di un organismo smontato e ricostruito non nella sua ipotizzata verità originale (remota – se mai fu – in un paradiso perduto per l’uomo, cui è negata perfino l’evasione nell’utopia) ma nella durezza, nella solitudine e nell’angoscia di un tempo senza miti, né in cielo né in terra, che non siano oppressori della persona, stringe in unità rigorosa, estetica ed etica insieme, come non accade comunemente nell’arte del nostro tempo, tutta la pittura di Quattrucci, e la sua grafica e la sua scultura, che non sono visionarie ma spietatamente realistiche nella consapevolezza lucida del cammino cieco intercorrente tra i due termini incogniti della nascita e della morte cui la vita corre, e fatta disperata dalla perdita della libertà e della dignità personale.
Col diario di un uomo pensoso, dai rari momenti di distensione (vedi la spiaggia di Salinas Cruz, 1973, con l’orlo dell’oceano assimilato al fluttuante panneggio terminale d’una veste di geisha di una stampa di Utamaro) o di scoperto compianto delle vittime (Arcadia al Napalm, 1972; Una prostituta, 1975) perché la pietà e la tenerezza gli rimangono quasi sempre dentro, come l’odio per la violenza, indirettamente espresso dovunque, non gridato mai, sorte il profilo di un artista che ha giocato fino in fondo, pagando di persona, una parte difficile ai margini della cultura accreditata, delle accademie minuscole ma potenti che emarginano che si pone fuori dei loro schemi.
Oggi, davanti a questa mostra, che è quasi la scoperta di un artista inedito, può sembrare incredibile che Quattrucci, benché avesse nome e godesse la stima di molti che anche ora lo ricordano, nella monografia confermandogli l’ammirazione e l’affetto, non avesse conseguito il riconoscimento dovutogli e personalità tra le più spiccate e nuove e forti della sua generazione, e aggiungerò delle poche aperte al futuro, se ha qualche probabilità di avverarsi la speranza di una società diversa, fiduciosa nel domani, e di un’arte responsabile.
Ma basterà leggerli, i nomi degli amici di Quattrucci; altrettanti eretici come lui: ciascuno, anche se di più rapida e maggiore fortuna, “estraniato – scrive Ennio Calabria – nella propria solitaria ansiosa ed a volte camaleontica routine”. Da che appare sempre più necessario cercare scampo dal condizionamento del casualismo sociale ed economico oggi imperante “tra faraoni crudeli e un cielo implacabile”, per dirla con le parole di Renzo Vespignani in un’intervista di sette anni fa.
Ancora Vespignani – in una testimonianza stampata sul catalogo – dice: “Quattrucci racconta senza soprassalti una società pietrificata. Che dovesse restare per molti anni incollocabile nel casellario critico corrente, era inevitabile. Ne ha sofferto, ma senza cambiare una virgola al suo dettato, anzi irrigidendosi sempre più nelle sue negazioni, così spietate e intrepide da frantumarsi, alla fine, in un impatto catastrofico contro il muro del nulla”. E gli artisti solitamente vedono e giudicano meglio di noi.