Gennaio 8, 1983In testi critici, dai cataloghi, 1983
Testi critici

Franco Simongini | Ricordo di un pittore: Carlo Quattrucci

di Franco Simongini
Dal catalogo della mostra retrospettiva di Carlo Quattrucci
Dicembre 1992 | Gennaio 1983


Il suo cruccio era quello di essere snobbato: “Tu frequenti gli studi dei pittori ricchi, io sono un meticcio, ho fatto la fame, sono da evitare…”
Un giorno c’incontrammo a Porta Settimiana, a Trastevere, arrivò con il suo passo sghilembo, la sua faccia triste incorniciata da pesanti occhiali scuri, da un paio di baffi alla messicana e una barbetta scarduffata: indossava blue-jeans consumati e stinti ed una cinta borchiata con tanti stemmi ed emblemi. Pensavo che questo suo istinto di celarsi dietro un continuo camuffamento di parole e gesti e abiti fosse una specie di maschera per nascondere la sua timidezza, la sua angoscia, la sua dolorosa presa di possesso del mondo.
Da Porta Settimiana mi portò al di là del Tevere, passando per ponte Sisto, “il ponte piu bello e scenografico di Roma (mi diceva) con quello sfondo della cupola di San Pietro inquadrata tra due muraglioni bianchi e il ciuffo verde dei platani. Ho dipinto Ponte Sisto in ogni ora del giorno e della notte, mi affascina il suo aspetto ora spettrale ora quasi finto di fondale d’opera, e m’interessa il mondo dei personaggi che ci ruotano intorno, drogati, prostitute, mendicanti, disperati d’ogni colore e qualità.
Poi ho cominciato a dipingere piazza Campo de’ Fiori, il monumento di Giordano Bruno, lì in mezzo a tutti quei banchetti, bancarelle di fruttaroli e pescivendoli, un estraneo piovuto da altri mondi, da altri universi, quella statua a capo chino col volto intenso e cupo di chi sta per lasciare questa terra, e morir bruciato in mezzo ad una folla urlante e menefreghista, morire così per un’idea, per un qualsiasi banale incidente assurdo. E ho dipinto Giordano Bruno, questa sagoma scura al di là delle tende bianche dei carretti del mercato, questa figura che veleggia al di sopra del mondo quasi a volerne portar via gli odori i rumori i colori che io dipingo così fatui evanescenti ma densi come fantasmi che devono sciogliersi al primo sole del mattino. Così si muore a Roma, disperati e soli tra la folla che ride sghignazza e mangia noccioline…”.
Il pittore sembrava stanco di parlare, mi trascinò verso via dei Pettinari, ci fermammo nella piazzetta Trinità dei Pellegrini, mi fece entrare in una specie di bar, di circolo artistico, in un ambiente oscuro e fumoso dove alcune facce bieche e moresche stavano giocando a carte.
“E’ uno dei posti più fantastici e sconosciuti di Roma, è la Roma che gli stessi romani non conoscono, è la metafora di Roma, della sua gente, l’atmosfera ambigua mortuaria e sfrenata di Roma, la sua allegria e la sua profonda angoscia che pochi hanno saputo interpretare…”
Abituai gli occhi al luogo, m’accorsi con sempre maggior stupore che alle pareti di questo rettangolare camerone c’erano numerosi monumenti funebri di papi, cenotafi, i loro busti di marmo che li fermava in atto trionfale benedicente o in gesti raccolto di preghiera, e poi lapidi decorate di stemmi, in marmo prezioso, antico, con angeli in volo e scheletri con la falce sguainata. Angeli e papi, teschi e tiare, il rosario col coltello (come scriveva il Belli) era un vecchio ospizio che aveva alloggiato per secoli i pellegrini per l’Anno Santo, adibito in seguito ad ospedale durante l’eroica difesa della Repubblica Romana nel 1849 e dove mori di ferite Goffredo Mameli, quello dei Fratelli d’Italia, steso sul pavimento alla lusinghevole vista degli scheletri e dei papali stemmi. “Qui vengo a giocare a biliardo con i negri, i rifiutati, i miserabili d’ogni parte del mondo. Questa è la mia Roma, la città dove sono nato e che cerco disperatamente di dipingere. Tu forse puoi capire perché m’acquieto solo in questo ambiente lugubre e allegro e ossessivo allo stesso tempo, qui c’è la morte, l’azzardo, c’è l’avventura, c’è la storia e c’è la povertà, c’è l’inganno e c’è il senso che tutto e inutile e vano…”
Questo mi disse il pittore invitandomi a fare una partita a boccetta con lui, era frenetico, felice, ordinò vino bianco per tutti i presenti, vinse in tutte e tre le partite che giocammo, seguiti dagli occhi stanchi, torvi e fumosi degli avventori seduti stancamente ai bordi del biliardo, con i testoni dei papi e degli angioloni con le trombe in bocca che sbirciavano sopra i nostri giochi.
Forse fu l’ultimo suo giorno sereno.
Seppi nei giorni seguenti che s’era sparato alla tempia chiuso nel suo studio sotto il Gianicolo, a via dei Riari, in mezzo ai profumati e rari alberi dell’Orto Botanico.