Gennaio 15, 1983In Roma, rassegna stampa, 1983
Rassegna stampa

Ha saputo interpretare l'intimo carattere di una città affascinante

di Umberto Parricchi
AVANTI! | 15 gennaio 1983


Inaugurata l’8 gennaio alla Galleria La Gradiva di Roma, la prima mostra retrospettiva di Carlo Quattrucci, dopo la sua scomparsa avvenuta in circostanze drammatiche nel 1980, si ricollega idealmente all’ultima sua personale tenuta in quell’anno poco prima del tragico evento. Questa rassegna di 72 dipinti e 9 sculture si svolge pertanto su due piani: ripropone le opere degli anni Settanta e invita alla riflessione sulla personalità dell’artista. La pubblicazione che accompagna la mostra si avvale del testo critico di Dario Micacchi e comprende numerosi ricordi (di Antonio Russo, Rafael Alberti, Ennio Calabria, Tonino Caputo, Riccardo Tommasi Ferroni, Alessandro Kokocinski, Marussja, Franco Simongini, Alberto Sughi, Renzo Vespignani) oltre ad una lettera di Quattrucci a Domenico Javarone pubblicata nel 1979.
Il saggio di Micacchi è anche un’appassionata storia di Carlo, dei suoi aneliti libertari, dei suoi itinerari vagabondi, delle sue amicizie, degli incontri fondamentali e delle esperienze internazionali, dei momenti salienti della sua carriera d’artista, del suo fatale ritornare a Roma, la città più incredibile del mondo, dov’era nato nel 1932. L’analisi di quella che per Micacchi è “pittura della realtà” conferma quanto ebbe a scrivere Fortunato Bellonzi, in una monografia del 1980 dedicata a Quattrucci, sull’inconsueta Roma d’impronta nordica, con il conseguente riferimento a Edvard Munch; sul valore primario e autonomo del disegno sua rispetto al sentimento del colore sia allo sviluppo e al ritmo della scultura, da ricollegarsi al futurismo di Boccioni; sulle figure, i ritratti e le maschere sottesi dall’inquietudine e da un’ironia disperata.
Chiuso nel suo studio di via dei Riari, una traversa senza uscita della Lungara in Trastevere, Quattrucci rivive nei ricordi degli amici. Per l’intrecciarsi dei particolari biografici, lo vediamo uscire, indugiare sul Lungotevere, dipingere Ponte Sisto o attraversarlo per raggiungere il “grande circo” di Campo de’ Fiori in cui gli stranieri si mescolano agli artigiani, ai drogati, a Giordano Bruno: i fantasmi ritratti sulla tela del “perenne e chiassoso carnevale romano” immerso in un’atmosfera di assurda drammaticità. Se nel 1976 Alberti descriveva Quattrucci oscillante tra allegria, dolore e melanconia, ricordandolo come grande lavoratore ma sempre pronto a lasciare i pennelli per corree ai suoi impegni di militante fervente, Tommasi Ferroni che, lavorando nello studio accanto al suo, lo descrive insicuro timido sentimentale, non può dimenticare la sofferenza, la cupa disperazione che il suo volto esprimeva negli ultimi giorni di vita. Carlo non aveva la stoffa del rivoluzionario secondo le sue aspirazioni, riconosce Tommasi Ferroni, ma era sicuramente un autentico artista.
Anche se Quattrucci ha voluto porre termine con la morte alla ricerca inesausta e tormentata della verità interiore, le 81 opere che sono davanti a noi confermano ampiamente i giudizi positivi sulla sua personalissima esperienza estetica. A parte il delicato esotico paesaggio marino di “Salinas Cruz” (1973) che sfuma nell’orizzonte nebbioso, appena percettibile al di sotto della velatura di un cielo stupefacente, la mostra conferma, in particolare, che il meglio di sé Quattrucci l’ha dato nei dipinti compresi tra quelli di soggetto romano, più meditati, più sollecitati dalla memoria: “Paesaggio romano all’alba” (1972), “Lungotevere” (1975), “Tevere al tramonto” (1976), “Ponte Garibaldi” (1980). Qui la pittura si fa nitida, essenziale, il segno vigoroso e la scena deserta, eterna a fronte della vita umana che passa come volo di gabbiani spinti dal mare troppo forte a risalire il fiume sul filo del vento. Nelle molecole d’acqua che si accavallano avvertiamo che qualcosa di noi viene travolta e trascinata chissà dove; qualcosa che se ne va, che non regge al presente. E mentre cerchiamo nelle opere dispiegate dalla mostra segnali premonitori di un dramma esistenziale consumato in silenzio in questa città affascinante perché contraddittoria e coinvolgente fino alla distruzione, ci rendiamo conto che a volte nemmeno l’arte consola e riesce a ridare senso a quel fluire inarrestabile.
Il giovane barbuto con la chitarra a tracolla, evocato da Russo, si è tentati di assumerlo a simbolo di stagioni irrimediabilmente trascorse, di grandi speranze sconfitte, di passioni inutili. Ma le testimonianze e i pensieri di amici ed estimatori sembrano invece sollecitare, con le opere che gli sopravvivono, la presenza viva di una voce poetica la quale è riuscita a esprimersi con coerente determinazione.