Gennaio 16, 1983In Messico, rassegna stampa, 1983
Rassegna stampa

Berenice | Portò su Roma i cieli del Messico

di Berenice
Paese Sera | 16 gennaio 1983


Nella primavera del 1980 moriva suicida a Roma, all’età di 45 anni, il pittore Carlo Quattrucci. Quell’atto estremo, credo, fu il suo ultimo gesto di libertà. La libertà di uscire dalla vita chiudendo repentinamente davanti a tutte le sue negazioni la porta della propria esistenza. Con una mostra di dipinti editi e inediti di Carlo Quattrucci, Antonio Russo vuole oggi riproporre nelle sale della sua galleria romana, “La Gradiva”, l’opera dell’artista scomparso che i suoi quadri, come tessere di un mosaico, ricompongono in un quadro totale che è il racconto della sua pittura, della sua Roma, della sua esistenza ferita.
Fortunato Bellonzi ha ricordato Quattrucci ad apertura della mostra, con parole commosse. “La pittura di Quattrucci, ha detto tra l’altro Bellonzi, non è mai stata un atto privato, ma un’azione di vita, un parlarci della vita reale, sociale e umana con responsabilità”.
E anche il catalogo monografico pubblicato in occasione di questa retrospettiva a cura di Antonio Russo testimonia non solo dell’arte di Quattrucci: la serie dei suoi autoritratti è presentata da un saggio di Dario Micacchi e accompagnata da note di artisti e amici che di Quattrucci, della sua pittura, della sua vitalità e del suo dramma riescono a darci un ritratto parlante.
Ennio Calabria “… Conobbi la pittura di Carlo come una pittura d’impegno nel senso che era tutta al servizio della denuncia a conto di non esistere. Ricordo di aver provato fastidio per quei grigi sporchi delle strade notturne della città, per l’aggressività approssimativa con cui dipingeva gli acciai delle moto dei giovani. Ma ricordo anche di essermi sentito un po’ inibito e ridicolmente casto di fronte a quella determinazione che sacrificava per sempre il bello gratificante ad un espressionismo della scelta di campo…”
Dario Micacchi “… Carlo l’ho conosciuto nel 1959. Era un uomo-ragazzo dolce ma facile infiammarsi, fragile, ma che nascondeva un che di popolano misto di passione e di furore. Non portava occhiali anche se ne aveva bisogno, e il suo volto appariva più aguzzo, un po’ delirante per quei fantasmi dell’immaginazione che gli premevano dentro… Con i sei mesi del soggiorno in Messico, nel 1966, al seguito del geniale David Alfaro Siqueiros, in compagnia di tanti altri giovani venuti da tutto il mondo a lavorare, sotto la guida di Mario Orozco Rivera, in Cuernavaca, ai grandi pannelli polimaterici a rilievo, per il murale della “Marcia dell’Umanità”, Carlo rinnovò il suo occhio, sveltì la sua mano, imparò ad essere analitico e sintetico allo stesso tempo: la sua maniera spiralica e “barocca” ne fu esaltata; il disegno potenziato nelle sue curve di qualità simbolica; e, credo, dalla sterminata natura messicana cavò un senso spaziali infinito e cosmico che prima non possedeva…”
Riccardo Tommasi Ferroni “… Il suo studio era accanto al mio, porta a porta, a via dei Riari. E questo fatto era per me qualcosa di inquietante e di rassicurante: una presenza rumorosa e misteriosa, una compagnia piena di vita…”
Tonino Caputo “… Uscivamo per il consueto giro attorno al quadrilatero Montoro, Cappellari, Campo de’ Fiori, Monserrato. Per noi quella era la strada che una leggenda, inventata da noi stessi, faceva percorrere a mezzanotte in punto, al fantasma di Giordano Bruno. Finito il giro lo accompagnavo fino a Ponte Sisto, attraverso il quale rientrava nel suo studio a Trastevere. Durante la passeggiata mi raccontava tutti i pericoli reali ed immaginari che aveva affrontato per venire in città (così diceva ogni volta che attraverso quel ponte abbandonava Trastevere) …”
Alessandro Kokocinski “… Ognuno deve qualcosa a qualcuno. Come dimenticare il Quattrucci. Il suo umile, sensibile e concreto aiuto datomi sin da quando sono arrivato a Roma… ricordo i suoi giudizi che distillavano amarezza ma il suo sorriso diceva la voglia di vivere”
Renzo Vespignani “Il Tevere è un fiume d’urina e stagna sotto l’occhio cieco di Ponte Sisto; nel cielo di lamiera martellata e rugginosa, l’occhio della luna. Questa è la Roma di Quattrucci, città ossificata e deserta, i monumenti come abitazioni rupestri, archi e antemurali come tibie calcinare di un sauro antidiluviano… Un cosmo così privo di accoramenti e di indignazioni, e forme così scabre e inflessibili costituiscono, credo, un “fenomeno” assolutamente singolare nella storia di questi ultimi anni, e per molti versi inspiegabile a Roma, dove, forse per ancestralità barocco-cattolica, il pittore continua infaticabilmente a dragare in un repertorio di ambiguità inebrianti, di sapienti pastiches onirici….
Quattrucci racconta senza soprassalti una società pietrificata… Che dovesse restare per molti anni incollocabile nel casellario critico corrente, era inevitabile. Ne ha sofferto, ma senza cambiare una virgola al suo dettato; anzi irrigidendosi sempre nelle negazioni; così spietate e intrepide da frantumarsi, alla fine, in un impatto catastrofico contro il muro del nulla”
Poi ci sono l’introduzione onirica di Antonio Russo, il ricordo affascinante di Simongini, la testimonianza vitale di Rafael Alberti, i versi dolenti di Marussia.