Rassegna stampa
Gianluigi Melega | In silenzio, con la porta chiusa
il 29 aprile 1980 il pittore Carlo Quattrucci si uccise co un colpo di pistola. Lasciando una lettera con “preghiera di pubblicazione”. Per tre anni si è discusso se pubblicarla o no. Ecco tutta la storia.
di Gianluigi Melega
L'Espresso | 6 febbraio 1983
Il 28 aprile 1980, mese, anniversario, a 50 anni di distanza, del suicidio di Vladimir Majakovskij, il pittore romano Carlo Quattrucci si chiuse nel suo studio sotto il Gianicolo, a Roma, scrisse una lettera d’addio in più copie indirizzate a diversi amici, chiamò la donna che faceva le pulizie nello studio, le diede da imbucare le buste, la salutò, e, rimasto solo, pochi minuti dopo si sparò un colpo di pistola alla tempia.
Aveva 48 anni. Non aveva assillanti problemi di ordine economico: come scrisse lui stesso, «non sono ricco, però non muoio di fame». La lettera, con qualche lieve variante nelle copie a seconda dei destinatari, era il bilancio fra ironico e patetico della vita di un intellettuale militante della sinistra che, come quel Majakovskij che aveva molto amato, non riusciva a sopportare la fine delle proprie speranze politiche e umane.
Quattrucci, che aveva militato per trent’anni nel PCI, sempre da sinistra e, negli ultimi anni, era appassionatamente vicino alle frange estreme del partito, mandò una copia della lettera a Jolena Baldini, che con lo pseudonimo di “Berenice” teneva una rubrica molto letta su “Paese Sera”, pregandola di pubblicarla sul giornale. Un’altra copia la inviò a un critico amico, Fortunato Bellonzi, pregandolo di correggerne gli errori materiali, prima che la si pubblicasse. Una terza copia l’ebbero la vedova, Maria José, e la figlia, Tiziana.
Tutte queste persone era legate al suicida da sentimenti d’affetto, o addirittura d’amore profondo. La lettera, per la storia di Quattrucci, per le circostanze della sua morte, per i temi comuni e un mondo di intellettuali militanti politici che trattava, avrebbe potuto esser pubblicata, magari anche soltanto su qualche rivista letteraria di limitata circolazione. Anche perché, il suicida aveva esplicitamente lasciato disposizione che ciò fosse fatto.
Invece, a tre anni di distanza, e ancora in un episodio recente, come si vedrà, ciò non è avvenuto. Perché?
C’è un’ipotesi da esaminare: il suicidio è un gesto che incute paura e vergogna, “nefas” amato e turbante che si cerca di coprire o dimenticare.
Prendiamo il caso Quattrucci. La prima a muoversi fu “Berenice”. Secondo il suo racconto, ricevuta la lettera, fu colpita negativamente da un paragrafo di cattivo gusto, quello in cui il suicida raccontava di avere amato “le donne sbagliate”. «Dissi alla vedova che avrei voluto pubblicare la lettera, tagliando quella frase. Era di tono scadente, e gli faceva torto. Lei mi rispose: “O tutto o niente”, e io allora non la pubblicai».
Secondo la vedova e la figlia, le cose andarono diversamente. La lettera fu consegnata a “Paese Sera” (ma direttamente al direttore e il condirettore di allora, Giuseppe Fiori e Piero Pratesi, non ricordarono assolutamente di avere discusso l’argomento). Dopo alcune telefonate di sollecito, le due donne vennero ricevute a “Paese Sera” da un giornalista di cui non ricordano il nome, incaricato di discutere la cosa con loro. «Il colloquio durò circa mezz’ora e fu molto ambiguo», racconta la vedova. «Il giornalista sembrava imbarazzato, tergiversava. A un certo punto, io sbottai: “Vi dico io perché non volete pubblicarla: perché tra due settimane ci sono le elezioni, e la lettera dà politicamente fastidio”. Il giornalista non volle polemizzare: disse che un giornale popolare era letto anche dai giovani, e che una lettera come quella poteva indurre alcuni di loro a compiere gravi sbagli. D’altra parte, il giornale non aveva alcun obbligo di pubblicazione: anche se mio marito aveva avuto per trent’anni la tessera del PCI, mi limitai a chiedere che mi dessero una risposta precisa, sì o no, su ciò che intendevano fare». Qualche giorno più tardi, per telefono, la vedova seppe che la lettera non sarebbe stata pubblicata.
Alcuni mesi fa il gallerista di Quattrucci, Antonio Russo, cominciò a preparare una mostra antologica del pittore alla “Gradiva”, la sua galleria romana. Durante la preparazione del catalogo rispuntò l’ipotesi della pubblicazione della lettera. A decidere, questa volta, avrebbero dovuto essere moglie e figlia: ed entrambi erano favorevoli a farlo. Ma si consultarono con il critico Bellonzi. «Non esito a dire che consigliai loro di non pubblicarla nel catalogo», racconta Bellonzi. «Perché? E’ presto detto. Il suicidio nella vita di un uomo è fatto importante, ma è secondario nella sua opera di artista. La lettera avrebbe spostato l’accento dell’attenzione dalle opere al personaggio. E il catalogo e la mostra avrebbero preso un tono di commemorazione penosa, a mio avviso da evitare. L’opera d’arte è qualcosa per tutti, il suicidio è un fatto privato e così è bene che resti».
Le due donne, convinte dalle argomentazioni di Bellonzi, decisero di soprassedere: «Vogliamo assolutamente che la lettera sia pubblicata, non fosse altro che per una ragione: che lui voleva così. Ma, è vero, ci pare giusto scegliere un argomento e una pubblicazione diversa dal catalogo della mostra».
Antonio Russo, il gallerista, rimase spiacevolmente colpito dalla decisione. Anche lui era stato amico ed estimatore di Quattrucci, oltre che suo mercante. Gli parve che a quell’uomo scomodo venisse posto un bavaglio anche da morto: che poteva fare? «Gli amici politici di Quattrucci, davanti alle sue posizioni battagliere, avevano finito col diradarsi. Allora ho pensato di cambiare totalmente campo: ho mostrato la lettera a monsignor Ennio Francia, un prete amico degli artisti e di Quattrucci, canonico di San Pietro che scrive per l’”Osservatore Romano”. Mi disse che era un documento umano, toccante e significativo: me ne chiese copia, voleva pubblicarla in parte».
Monsignor Francia invece non la pubblicò.
Dice monsignor Francia: «Confesso che, se dovessi decidere io, sarei in fortissimo imbarazzo. Quell’uomo che ho conosciuto così pieno di vira, di voglia di vivere… Sento che prevarrebbe in me una sorta di rispetto per la tragedia: mi ritirerei, come di fronte a un mistero. Facendo qualcosa, qualsiasi cosa, avrei l’impressione di profanare un gesto quasi sacro».
E così, ancora una volta, e per motivi in apparenza tanto diversi, la lettera non è stata pubblicata.
Tanto diversi in apparenza. Perché qualcosa, nel fondo, li accomuna: la tutela del politico, del privato, dell’estetico, della fede, in che cosa è messa in pericolo dallo sfregio ironico e definitivo di un suicida?
Chiedo a Gianni Vattimo, filosofo, di essere lui a suggerire una o due risposte su cui sostare a meditare. Riassumo qui molto rozzamente i suoi pensieri.
La morte è stata tabuizzata. Quindi, resa importante.
In una società come la nostra, individualistica e funzionalistica, ogni essere ha un ruolo, ha un valore economico: perciò, quando si auto elimina, compie un atto rilevante in negativo, crea un vuoto, causa scompiglio.
In altre culture, quelle orientali per esempio, il suicidio può persino essere un atto eroico positivo, comunque è senza grande importanza per la coscienza collettiva: da noi, come l’autolesionismo, è un reato perseguito dal codice. Diventa, quindi un “brutto” gesto. Per di più, secondo una fulminante intuizione di Schopenhauer, è un “eccesso di volontà”, un gesto troppo enfatico, eccessivo rispetto alla realtà media della vita. E chi eccede, disturba.
Ecco la lettera d’addio di Carlo Quattrucci, pittore italiano, suicida. Ognuno giudichi da sé.
L’”insano gesto”, come usano scrivere i giornalisti di bassa categoria, che mi elegge nel “mondo dei più” è determinato non da problemi di ordine economico (non sono ricco però non muoio di fame) o da scaturigini sentimentali.
È da parecchio tempo che il termine in questione è stato “rubato” dai soliti ignoti nell’archivio della mia vita. Non si tratta nemmeno di un problema di mancanza di fantasia. Tutt’altro! Adesso ho capito ciò che “potrei” dipingere, disegnare o modellare. Purtroppo mi sono semplicemente reso conto, alla soglia dei 48 anni, che ho vissuto in un assurdo equivoco.
Ho sempre amato con passione le donne sbagliate, e quelle degli altri sono sempre state le più gradite, e gliene rendo omaggio. Sono un gentiluomo e, naturalmente, non faccio nomi.
La mia vera “crisi” è esplosa come tutti i fenomeni di questo mondo, con la rivelazione (o epifania) come scriverebbe il mio amico Mario Lunetta, che l’uomo pensante è ineluttabilmente un essere soggetto a una crudele selezione che elimina le specie meno adatte.
Io mi considero appartenente a una forma di vira in via d’estinzione. Esiste in me una crisi di rigetto della esistenza in quanto tale e nella concezione corrente del termine. Vale a dire che io scelgo la morte per tornare a vivere.
Non si tratta di un paradosso. Persone molto più colte e illuminate di me si sono occupate di questo angoscioso problema con competenza e abilità. Io non sono, e d’altronde non potrei mai essere, un uomo obiettivo. Ho creduto, sbagliando tutto, pagando spesso duramente, nel marxismo. Sono un intellettuale di estrazione borghese che ha visto bruciare i “sogni libertari” per i quali era pronto a morire, in un “falò” allucinante.
A proposito di “falò”, non intendevo riferirmi a Cesare Pavese.
Io amo la vira e non la morte e sono totalmente d’accordo con la teoria di Giorgio Bassani, quando asserisce di essere l’unico ebreo che non si esprime “con un tetro linguaggio della triste metastoria dell’ebraismo”. Inconsciamente egli è un’”autonomo” e in quanto tale mi risulta simpatico. Sono semplicemente un uomo triste, stanco di vegetare in un’”ultima spiaggia”, e che è convinto che il sopravvivere in questo mondo in maniera scomoda e irrazionale rappresenti un inutile sacrificio. Scrive il mio amico Fortunato Bellonzi, riferendosi alla mia ultima mostra: «un interrogativo inquietante, come penso di dover credere, sulla assurdità che sembra presiedere al nostro cammino e trascinarlo senza giustificazione fin al termine buio della morte”. Amen. Esiste, invece, una legittima giustificazione: io, Carlo Quattrucci, pittore in Roma, non desidero essere un ostaggio permanente nell’”ambasciata della vita”. Madre, che dall’altro della tua nobile ed aristocratica ignoranza, stenterai a ritrovare i versi del poeta (sei rimasta a Pascoli o a De Amicis) non capirai mai il “precipiterò nel mare della morte senza felicità né rimpianti come Atlantide”.
A te questi versi sono sconosciuti e la tua “pseudo cultura” borghese non è servita a nulla, come del resto a me. Se io, parafrasando il grande poeta, ti dicessi: «Mamma, tuo figlio è magnificamente malato!», tu non lo capiresti, e questo lo comprendo, e ti perdono. Io so solo che «un chiodo in un mio stivale è più raccapricciante della fantasia di Goethe», e che dato che «hanno di nuovo decapitato le stelle», me ne vado, silenziosamente.
Non sono versi miei, si riferiscono a un testo-testamento di un poeta russo, certo Volodia M. che non era inserito nei testi scolastici di quando noi, faticosamente, studiavamo il “manarese”.
Non vedo l’ora di conoscere il poeta russo in questione, con Cesare Pavese, Ernest Hemingway, la dolce Marilyn ed altri buontemponi che mi faranno, nel caso in cui io fossi accettato alla loro mensa, una gradevole compagnia.
Non ho rimpianti.
Spero solo che il mio amico Tonino Caputo prenda posto nel mio studio e che, condividendolo con mia figlia Tiziana, esorcizzi i fantasmi che non esistono, che sono solo frutto di superstizioni meridionali e che nel mio “caso” si comporteranno con correttezza e amabilità, regole fondamentali di vita che dovrebbero contraddistinguere gli “spettri civili” dagli “spettri teppisti”. Nel caso che il Tonino Caputo non si sentisse di “abitare” lo studio, lo conceda, così com’è, al suo amico Carmelo Bene che senza togliere o aggiungere niente sono sicuro ne ricaverà una scenografia economica e funzionale sulla condizione di un intellettuale “1980” costretto dagli eventi a togliersi la vita per continuare a vivere.
Non ho denaro e in conseguenza i miei “eredi” dovranno accontentarsi di poco.
Questo scritto autografo al mi amico Massimo Riposati, perché ne faccia l’uso che crede. E’ un giovane efficiente, simpatico e infine questa è una vera “carta segreta”.
L’ultimo quadro che oggi ho precariamente terminato a Fortunato Bellonzi, che con acume e intelligenza aveva perfettamente intuito il dramma in cui io ero, allora, inconsciamente coinvolto, senza avermelo mai esternato.
Il cavalletto lo regalo, con il materiale da lavoro a mia figlia Tiziana nella speranza che lo utilizzi bene.
A mio padre, Leonardo Quattrucci, innocente dattilografo di una parte della mia vita, un quadro, che sia sereno e che si ricordi di suo figlio come di una “presenza-assenza” scomoda ma a volte simpatica nella sua esistenza.
Prego mia sorella Serena saldare l’acquisto di un mio quadro. La creditrice è, ovviamente, Maria José Ruibal Morell, vedova Quattrucci.
Le tirature di grafica non firmate debbono, in base a questo scritto, considerarsi regolarmente firmate a tutti gli effetti e distribuite tra Massimo Riposati, Maria José Morell e mia figlia Tiziana. Le copie dei cinque bronzi (tiratura 7 cadauno) saranno divise tra Giuliano Gemma che si assumerà l’onere di pagare le spese di fusione e Maria José Ruibal. Il compito di distruggere i calchi lo affido a Bellonzi, Caputo e Gemma.
Maria José, dolce amica e compagna. Ti ho amato molto, e non ti ho tradito mai. Hai sbagliato ad accettare il mio invito nella “rambla” catalana di Barcellona, a vivere con me. Se ti ho ferita non l’ho fatto di proposito e se l’ultimo dei miei viaggi invece di realizzarsi, come nei nostri programmi, su una “barca” di 17 metri, “sponsorizzata” Assitalia, destino Alicante, si convertirà in un viaggio charter in compagnia di Caronte, pazienza! Perso che lo “Stige”, le “Bocche di Bonifacio” e il “Golfo di Leon” siano posti dove, come scriveva Voltaire, sia giusto che si affoghino i miscredenti e gli anabattisti. Non te ne avere a male.
Avrò occasione di riparlare con “Mimmo” Javarone e la cosa non sarà divertente, però “che fare?”, come diceva Lenin.
Avrei dovuto morire nell’ospedale Vodkina di Mosca. Sarebbe stato il momento giusto, ma, co me scrisse Saragat il “destino cinico e baro” volle ingiustamente prolungare con la ferocia degna di un nazista, la mia esistenza.
Prego Jolena Baldini di pubblicare questo mio povero testamento, e sono sicuro che lei lo farà.
Le lastre “biffate” sono, una del mio amico pittore-chirurgo Guglielmo Militello, la seconda per Jolena Baldini, la terza per Glauco Pellegrini che penso come amico e compagno mi presenterà a “Carte Segrete”, perdonandomi per la mia “non temporanea” assenza. Vi saluto tutti e chiudo tristemente pensando che, come sempre, ha vinto la destra. Infatti la pistola che mi libererà da questa squallida camicia di forza che è la vita l’ho comprata per difendermi dai fascisti. Hanno vinto loro!
Maria José, non avertene a male. Sei una donna giovane, intelligente, colta e hai degli occhi molto belli ed espressivi. La colpa non è tua e ti auguro di trovare un altro compagno, più giovane e allegro del Quattrucci. Ti sconsiglio gli artisti in generale e i pittori in particolare.
Mi ucciderò nel mio studio con una Colt Cobra calibro 38.
Lo farò con la porta chiusa, poiché i corvi dell’orto botanico e i cani degli amici sono amici del sangue e ciò, dal punto di vista estetico, mi darebbe veramente fastidio. Sono un “perfezionista” fallito.
Delego la correzione delle bozze a Fortunato Bellonzi che penso ritenga questa lucida testimonianza degna di essere presa in benevola considerazione e trattata con il dovuto rispetto.
Addio.
Carlo Quattrucci