Rassegna stampa
Antonello Trombadori | Dal Messico con fantarealismo
di Antonello Trombadori
Europeo | 14 febbraio 1983
Alla Gradiva di Roma la prima retrospettiva di Carlo Quattrucci (1932-1980). Non fu a caso che nel 1965 indicai a David Alfaro Siqueiros Carlo Quattrucci, come uno dei suoi aiuti nella equipe internazionale per i “murales” di Cuernavaca, di Chapultepec e della “ex Aduana”. Prima di fermarmi sul suo nome ci pensai a lungo. E tra i più giovani pittori con i quali avevo dimestichezza di problematica figurativa e di intenzioni morali Carlo Quattrucci mi risultò il più idoneo non solo per la sua coraggiosa disponibilità al nuovo, ma per il modo che fu suo di riproporsi l’esigenza ideale del “realismo” allargandone e al tempo stesso non deformandone i connotati storici moderni.
David Alfaro Siqueiros sapeva che la domanda rivolta a me avrebbe ricevuto una risposta non burocratica. L’amicizia e la stima che nacquero tra Siqueiros e Quattrucci confermarono la bontà della scelta proprio riguardo al contributo creativo che Quattrucci portò all’impresa.
Non avrebbe potuto essere diversamente. Carlo Quattrucci fu, al punto di cerniera e di svolta del movimento realista italiano negli anni ’60, uno dei più attenti a far si che nell’operazione di scrollamento dei paraocchi ideologici che avevano pesato proprio sullo spirito d’avanguardia della tendenza e sul suo necessario respiro mondiale nella ricerca di nuove forme, i diritti della fantasia creatrice fossero posti sempre a fuoco.
Il passaggio dalla contemplazione e dalla forzatura agitatoria della realtà alla lettura e al sondaggio del suo mistero esistenziale fu in effetti la divisa di tutto un gruppo di giovani artisti, particolarmente nella Roma di quegli anni. Carlo Quattrucci, con quel colore che sta fra l’inizio del giorno e la fine della notte, quel metallico azzurro lunare dove si combattono il bianco e il nero, e con quelle figure attorte come l’albero che nelle sue ultime tele raffigura il duplice volto della morte e della vita su un unico fusto, era, e tale si confermò, il più aperto ad incontrarsi con la dimensione fantastica del realismo messicano.
Quando tornò, ben lungi dall’essersi piegato a un qualsiasi manierismo, si dette a dipingere una Roma la cui immagine è ora inseparabile da quelle che fanno illustre la tradizione figurativa della città. Ed è molto. Atroce è il ricordo del suo funerale sulla terrazza degli studi in via dei Riari, ai piedi del Gianicolo, dove il giorno prima si era suicidato.