Rassegna stampa
Fortunato Bellonzi | Quella Roma visionaria
di Fortunato Bellonzi
Il Tempo | 29 aprile 1992
Uno dei più geniali pittori della sua generazione.
Amava Roma dove era nato, ma alla Scuola Romana non doveva neppure una pennellata del rosso “romano” di Scipione o di Mafai.
Si chiamava Carlo Quattrucci, e l’elegia non era materia confacente al suo genio: fiori secchi e demolizioni erano semplicemente immagini della fine per la quale non sentiva compianto, o della violenza patita che gli suscitava orrore (quando sono malato o soffro, diceva, resto muto).
E detestava il tramonto, che è quanto dire che respingeva la maggior parte della tavolozza romana in funzione espressiva del raccoglimento interiore. Come per il Foscolo, di cui recitava a memoria il sonetto famoso, l’annuncio della sera era la “fatal quiete”, non temuta ma rifiutata: morirò, ripeteva, come e quando piacerà a me.
Lo scatenava la notte (almeno così pareva) con la bettola, il vino, la chitarra e l’avventura, cercati letterariamente con accanimento e nessuno, tranne l’amicizia, creduto.
Amava anche la Spagna; e il Messico dove aveva lavorato in qualità di aiuto ad alcuni “murales” di Siqueiros, senza però risentirne alcun influsso (che la pittura dovesse essere per tutti gli uomini lo seppe subito, da sé).
Il suo linguaggio di pittore fu nordico per elezione: secco, definitorio nel segno, aspro e contrastato nel colore, con effetti di un espressionismo spiritato ma non mai debordante dall’impalcatura naturale, rigorosamente osservata. Ivi l’invenzione ardita si collocava sicura e plausibile quanto una variante della naturalezza.
Munch doveva stargli alle spalle, compagno congeniale assai più che maestro, e Lorenzo Viani visitarlo di quando in quando: il “Ritratto della madre”, chiusa nelle sue gramaglie come una crisalide dura, il viso ossuto e pallido trasparente dal velo, è accostabile a certe impietose vecchie vianesche.
Difficili confronti.
Tuttavia di una dipendenza palese, d’animo e di stile, da Munch o dal Viani, non si può parlare: prima bisognerebbe compiere una ricerca di documenti che non si sa dove cercare, e di confronti difficili data l’enorme dispersione delle pitture e soprattutto dei moltissimi disegni, studi e incisioni bellissime del Quattrucci. (Anche per un altro dei suoi tanti capolavori accade di pensare al Viani: il ritratto a mezzo busto di una coppia grottesca, malavitosa, di colore acceso e dissonante, delineata e dipinta con la finitezza gotica di un Grosz, ma anche più impressionante per la forza morale che propone e condanna).
La tenerezza, sempre respinta, non è che a volte non assalisse il Quattrucci di sorpresa, disarmato qual era suo malgrado padroneggiasse un lessico furioso, plurilingue e popolaresco, col quale camuffarsi e difendersi.
Talune sue vedute di costa iberica, orlata dal mare con lunghe falci placide di onde che slargano sulla battima una bava leggera, inclinano all’idillio attestando un’attenzione alla natura, infrequente al nostro tempo con altrettanta effusione amorosa.
Ma a questo amore si accompagna, forse lo nutre, un’energia inaspettata che accampa improvvisi dorsi di colline, affonda paesi nel verde, agita mostri di nuvole nel cielo: e chissà come l’eden si scontra con le marine visionarie di Nolde.
Non la Roma d’oro e di porpora, di cenere e di sangue inventata dai decadentisti (Scipione ne è l’epigono supremo) ma la Roma dei lungotevere sezionati a fasce larghe dalle ali aperte e ferme dei gabbiani in volo; e quella delle piazze a misura d’uomo, affaccendate e ostinatamente plebee quantunque colme di memorie antiche, ha avuto in Quattrucci un interprete singolare, sensibile, allarmato, un sismografo del proprio tempo (avrebbe detto Arturo Martini) immune dai limiti dell’attualità e della cronaca.
Quante volte ha dipinto il romano Campo de’ Fiori con una vena drammatica ogni volta nuova e diversa! Le ombre dense, agitate, sotto gli aperti ombrelloni bianchi del mercato dai quali emerge la statua di Giordano Bruno.
Il tronco di un platano.
Nel fondo la prospettiva della piazza, casuale ma straordinariamente composita e unitaria: facciate, tetti, terrazze, muretti sghembi percorsi da scalette esterne, dominandovi l’alternanza e la gradazione delle ocre, dei grigi e dei bianchi tra sé riguardosi, che non debbano soverchiarsi a vicenda. Tra i motivi paesaggistici cari al Quattrucci era anche il tronco grande di un albero, forse di un platano. Ma ai platani non crescono rami grossi un metro, o poco più, al di sopra delle radici.
Nondimeno al pittore piaceva fantasticare che nascessero, e che fatti adulti un colpo obliquo e netto del pennato li recidesse, lasciandone nel tronco lo spuntone nudo con la ferita che il tempo rapidamente imbruna.
Di tali tronchi mutilati, che talvolta fanno quinta di lato a una curva ampia del fiume, se ne vedono spesso nei lungotevere del Quattrucci, per lo più deserti, ma anche animati da ragazzi di vita.
E benché il fogliame e la cima non compaiano mai, pur senti che non sono scheletri d’alberi morti, ma alberi vivi che vien da pensare abbiano patito e soffrano ancora.
L’ultimo di questi tronchi, dall’autore stesso chiamato “l’albero della mia vita secco come il mio cuore”, occupa quasi l’intero campo del quadro, proiettando a destra e a sinistra ceppi di rami in forma di incudini, teste scattanti di serpe, una bautta carnevalesca, un Pierrot cennante un sorriso, una faccina di bambola dalle mani stampigliate che impongono non sai se divieto o silenzio, e un cavalluccio di giostra.
Sul piano dove l’albero coi suoi simboli ambigui è fitto, brillano otto trottoline di carta verse col gambo bianco, eguali a quelle che si ritagliano per divertire i bambini; e su di loro spiccano bianchi nel fondo nero l’alfa e l’omega con le date della nascita e della morte: 1932-1980 il dipinto è eseguito con colori stemperati in liquido essiccativo per fare il tempi a lasciarmelo in portineria insieme con una lettera lunga, pacata e straziante. Incredulo e sgomento gli telefonai subito. Mi risposero i carabinieri. Si era ucciso.